Come volevasi dimostrare. Nel fine settimana un’indagine della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, elaborata a partire dai microdati delle forze lavoro dell’Istat, ci ha detto che 4,4 milioni di persone riprendono la propria attività lavorativa dal 4 maggio, a fronte di 2,7 milioni che restano a casa .

Chi resta a casa? Sorpresone. Torneranno nelle loro fabbriche e aziende 3,3 milioni di uomini (il 74,8% del totale) e 1 milione e 100mila donne (il 25,2%). Per queste ultime si prospettano tempi di ripresa più lunghi: meno della metà di quante sono rimaste a casa per effetto dei diversi decreti (44,1%) tornerà al lavoro dal 4 maggio, a fronte di una quota molto più alta per gli uomini (72,2%).

La fondazione fornisce una spiegazione: a favorire la ripresa dell’occupazione maschile è il fatto che a riaprire per primi siano i settori industriali. Fin qui l’effetto dei decreti.

Poi, però, c’è l’effetto delle scelte dei singoli. Scelte, anche se obbligate. Perché se in una coppia possono tornare al lavoro entrambi, ma a casa ci sono anche figli, allora decreto o no, nel focolare domestico qualcuno deve rimanere. Soprattutto se non sono state create in tempo le condizioni per avere alternative.

Il governo ha chiesto di promuovere il più possibile il lavoro agile, ma i Consulenti del Lavoro segnalano come “solo nel 36,6% dei casi i lavoratori chiamati a riprendere le proprie attività potranno farlo in smart working”. Sarà interessante capire, alla fine della fiera, chi ha chiesto il congedo parentale e chi no. Chi ha più garanzie o chi, al contrario, vive una situazione più precaria? Chi guadagna di meno? Chi ha un lavoro meno flessibile/gestibile da casa? Si vedrà. La storia ci insegna che è sulle madri che ricade il compito di stare con i figli. Per carità, non è sempre così e neppure vuol dire che gli effetti di questa difficile scelta non ricadano anche sui papà. Ma qui non c’è volontà di dividere, ma di comprendere, di aiutare a non dimenticare.

Sono così andata a guardare cosa accade di solito. E anche se non c’è un altro post-Coronavirus nella storia recente di questo Paese, però ho trovato molto interessante la relazione presentata alla fine di febbraio 2020, in audizione alla Commissione Lavoro della Camera, da Linda Laura Sabbadini, attuale direttore centrale dell’Istat. Nella relazione si analizza l’andamento del divario di genere negli ultimi 40 anni ed è stata osservata, da parte delle donne, una maggiore resilienza alle crisi, “dalle quali – si legge nella relazione – sono sempre uscite prima e meno colpita, rispetto alla componente maschile”. Ciò è dovuto sia al fatto che le donne lavorano maggiormente nei servizi (settore meno danneggiato dalla crisi economiche), sia alle trasformazioni che nel corso del tempo le hanno riguardate. Sorpresone, direte. Invece no.

Perché mentre la riduzione del gap tra il 1994 e il 2007 è stata frutto della crescita dell’occupazione femminile, tra il 2007 e il 2019 vi ha contribuito non poco il calo di quella maschile. Non solo. “Le donne hanno retto meglio all’impatto della crisi da un punto di vista quantitativo, hanno perso meno occupazione e l’hanno recuperata prima” spiega la relazione, ma in questo processo di riassestamento “non tutte le generazioni di donne si sono trovate nella stessa situazione”.

È andata meglio alle cinquantenni che alle più giovani. E c’è anche un altro aspetto: la crisi si è accompagnata a un peggioramento della qualità del lavoro delle donne, evidenziato nella precarietà, nella crescita del part-time involontario, nella crescita del fenomeno della sovraistruzione. Nei primi tre trimestri del 2019, le donne in parttime sono un terzo (32,8%) delle lavoratrici contro l’8,7% degli uomini. E, rileva l’Istat, il part-time “non è cresciuto come strumento di conciliazione dei tempi di vita”, ma “è sempre più uno strumento utilizzato per la flessibilità dal lato delle imprese”.

La stessa relazione parla anche delle criticità nella conciliazione dei tempi di vita. Un tema che mi fa tornare al tema del rientro al lavoro nella fase 2. L’11,1% delle donne che ha avuto almeno un figlio nella vita non ha mai lavorato per prendersi cura dei figli (3,7% è la media europea). E spiega l’Istat: “La partecipazione delle donne al mondo del lavoro è molto legata ai carichi familiari, il tasso di occupazione delle madri è più basso di quello delle donne senza figli”.

Nel 2018 (ultimo dato disponibile) è persino aumentato lo svantaggio delle donne (da 25 a 49 anni) con figli in età prescolare rispetto alle donne senza figli. “Se padri e madri occupati riportano problemi di conciliazione in ugual misura – si legge nella relazione – sono soprattutto le donne ad aver modificato qualche aspetto della propria attività lavorativa per meglio combinare il lavoro con le esigenze di cura dei figli”. Le principali modifiche apportate riguardano la riduzione o il cambiamento dell’orario di lavoro. La nascita dei figli comporta anche interruzione nell’attività lavorativa delle donne, decisione che riguarda anche le meno giovani, perché le difficoltà di conciliazione dei tempi di vita non diminuiscono nel tempo.

E questo al netto di Coronavirus e crisi economiche. Tanto per quella c’è sempre la resilienza. Aspettate, mio marito mi ha appena letto un titolo: La ministra Azzolina: “A settembre le lezioni metà a scuola e metà a casa”. Come non detto. Scordatevi la resilienza.

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