Lo stacco è stato netto. Dal ruggito degli stadi affollati al silenzio dei propri appartamenti. Spesso lontano dalla propria famiglia e dal proprio Paese d’origine. Tutto nel giro di pochi giorni, tutto senza sapere come e quando si riprenderà. Un mese e mezzo che rischia di diventare una pausa a tempo indeterminato e che, inevitabilmente, porta con sé paure e tormenti circa il proprio futuro. Anche per i calciatori. Perché dietro ai campioni più che privilegiati c’è una fitta schiera di professionisti sempre in bilico che ora inizia a temere per prosieguo della propria carriera.

Il risultato? Da quando anche il pallone è finito in lockdown il numero di calciatori che mostra sintomi riconducibili alla depressione è addirittura raddoppiato. Parola di uno studio condotto dal sindacato mondiale dei calciatori (Fifpro) e dal centro medico dell’Università di Amsterdam che, fra il 22 marzo e il 16 aprile, ha intervistato un campione di 1602 atleti (1134 calciatori e 468 calciatrici con un’età media rispettivamente di 26 e 23 anni) tesserati nei Paesi che hanno adottato misure drastiche di contenimento del virus come il confinamento a casa. E i risultati sono stati piuttosto pesanti. Secondo lo studio, infatti, circa il 22% delle calciatrici e il 13% dei calciatori ha riportato sintomi compatibili con una diagnosi di depressione. Ma non finisce qui. Perché il 18% delle giocatrici e il 16% dei giocatori ha ammesso di avere sintomi riconducibili a uno stato d’ansia generalizzata. Numeri impressionanti, soprattutto se paragonati a quelli fatti registrare da uno studio analogo, condotto fra dicembre e lo scorso gennaio su un campione di 307 atleti. Allora solo l’11% delle calciatrici e il 6% dei calciatori mostrava sintomi compatibili con quelli che portano a diagnosticare la depressione.

Da tempo gli studi della Fifpro prendono a pugni molti degli stereotipi che vengono cuciti addosso ai calciatori. A partire dall’idea che a soffrire di problemi psicologici siano per lo più gli atleti che hanno smesso di giocare. Niente più imprese da centrare, niente più copertine, niente più fama, niente più stadi interi che scandiscono il loro nome. Ovvio, dunque, che un ex calciatore possa soffrire di depressione, possa temere di essere risucchiato nel buco nero dell’oblio. D’altra parte con cosa si può sostituire la gioia orgasmica di un gol? Come si fa ad accettare di venire sostituiti nei cuori dei propri tifosi? Eppure, nel 2015, una ricerca del sindacato mondiale ha tratteggiato una realtà molto diversa. Già 5 anni fa il 38% dei calciatori professionisti in attività presentava sintomi di depressione. In altre parole in ogni rosa composta da 25 elementi, nove giocatori avevano dei “problemi psicologici”.

Un contenitore piuttosto spazioso che comprende sensazioni di angoscia, panico, depressione, disturbi del sonno o abuso di sostanze. Tutte situazioni che, ovviamente, limitano fortemente le prestazioni di un calciatore fino a renderlo irriconoscibile. Più in generale, secondo la Fifpro i problemi psicologici dei calciatori sarebbero legati alla gravità dei loro infortuni (i giocatori che hanno subito tre o più infortuni gravi sono fino a quattro volte più soggetti dei colleghi a soffrire di disturbi mentali), ai rapporti conflittuali con allenatore e compagni, all’insoddisfazione per la propria carriera, alla paura per non riuscire a continuare a giocare su buoni livelli, al dolore fisico per le botte ricevute durante i tanti anni di attività (soprattutto nella fase successiva al ritiro) e alla mancanza di allenamenti una volta staccata la spina.

Un elenco preciso ma, tuttavia, parziale. Perché molti dei problemi psicologici dei calciatori sono determinati anche dall’obbligo di soddisfare le aspettative, spesso sproporzionate, dei propri tifosi. Più o meno come è successo ad André Gomes, il portoghese che dopo due ottime annate al Valencia nel 2016 è stato acquistato dal Barcellona. Solo che in blaugrana, nonostante un avvio notevole, il centrocampista è diventato quasi subito impalpabile. E da lì sono iniziati i problemi, con l’aria che manca nei polmoni e l’ansia che si avvolge stretta la gola. “Sono bloccato dentro – ha raccontato esattamente due ani fa – non sto bene in campo, non riesco a godermi quello che mi piace fare di più. Nei primi sei mesi le cose sono andate molto bene, poi tutto è cambiato perché ho iniziato a sentire più pressione”.

E ancora: “Pensare troppo mi fa male, perché penso alle cose cattive e di conseguenza a tutto il resto. I miei compagni mi supportano molto, ma le cose non funzionano come vorrei. In più di un’occasione mi è successo di non voler uscire di casa perché le persone possono guardarti e io ho paura e vergogna“. Solo qualche giorno prima, Fabio Coentrao aveva raccontato quanto è stato duro per lui convivere con le aspettative gigantesche dei tifosi del Real, di come il pallone sia diventato improvvisamente pesante. “Avevo vinto una Champions – ha detto – So di aver fatto un sacco di cose brutte, di aver giocato brutte partite e passato momenti difficili, ma ho fatto anche cose buone che la gente non considerava. Ecco perché mi sentivo come il brutto anatroccolo del Real”.

Una sensazione che, in Italia, ha imparato a conoscere bene anche Andrea Ranocchia, capitano dell’Inter. “Sento un pregiudizio su di me – ha raccontato in un’intervista di qualche anno fa – sembra che all’Inter non abbia vinto solo io. Da tre mesi vado in un centro in cui mi seguono dal punto di vista fisico e psicologico. Lì parlo con una persona, non è proprio uno psicologo ma un esperto di mental training. Parlare con lui mi è servito a capire che quasi niente nella vita è irrimediabile“. Storie di uomini, prima ancora che calciatori, che all’improvviso si sentono soli. Completamente. Anche se intorno a loro ci sono più di cinquantamila persone. Ma anche storie di solitudini amplificate dalle tecnologie. Perché da fonte di svago i social network possono trasformarsi in una fonte di stress per i calciatori, in sfogatoi a cielo aperto capaci di dilatare il concetto di tempo.

Perché l’avversario può essere fischiato anche al di fuori dei 90’ minuti, può essere raggiunto con un tweet o con un post comodamente a casa sua. Perdendo quel contatto visivo che ci permette di capire quando stiamo esagerando. Pensate a cosa sarebbe successo oggi a Cantona dopo il calcio kung fu a Matthew Simmons. O a Baggio dopo il rigore sbagliato a USA ’94. In conclusione, il sondaggio della Fifpro afferma che i calciatori possono andare incontro a problemi psicologici esattamente come tutti gli altri lavoratori. Perché il salario percepito non è certo una barriera sufficiente a metterli al riparo. Ma per questo, forse, ci vorrebbe uno studio a parte.

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