“Dobbiamo muoverci in una logica di test sierologici solidi che diano risultati affidabili di comprovata utilità anche per la sicurezza del lavoro ma questo tipo di analisi sono la classica materia di pertinenza delle strutture sanitarie e del Sistema sanitario nazionale”. Così il presidente del Css Franco Locatelli ha riposto in conferenza stampa alla domanda se vi sarà un’indicazione di far eseguire alle aziende i test ai fini del rientro lavorativo. Una specie di patente per entrare in sicurezza nella fase 2. I test devono validati e soprattutto essere affidabili nella risposta. Quelli che si possono trovare online o quelli che vengono offerti da laboratori privati sono garantiscono affidabilità.

“Vanno ancora messi a punto dei criteri per la campagna sui test sierologici come il dimensionamento campionario e la raccolta dei campioni in riferimento ai laboratori che dovranno essere presenti in tutte le regioni, ma – promette Locatelli – non andremo per le lunghe nella definizione di tali aspetti: nel giro delle prossime settimane tutto inizierà e verrà concluso in tempi breve”. ieri Locatelli aveva anche spiegato che “il dimensionamento campionario verrà fatto considerando il genere della popolazione, inoltre sei fasce di età che abbiamo deciso di considerare grazie all’indicazione di Istat, poi un numero limitato di profili lavorativi e di differenze regionali; verrà scelto un test con elevata sensibilità, specificità, applicabilità larga su tutto il territorio nazionale, con larghissimo coinvolgimento delle Regioni”.

Sul test sierologico testato a Pavia lo scienziato dice: “È evidentemente uno degli strumenti, questa è una opzione ma magari ce ne sono altre: verrà fatta una comparazione per scegliere in modo trasparente e rigoroso la migliore piattaforma possibile per lo studio di sieroprevalenza”.

Del resto son si può programmare la fase 2 senza colmare l’attuale “carenza dispositivi diagnostici” ha detto nei giorni scorsi l’infettivologo Massimo Galli dell’ospedale Sacco Milano. Dobbiamo interrogarci sul perché l’Italia non abbia messo in piedi linee di diagnostica per passare alla fase 2, oggi prematura, ma da programmare altrimenti si rischia di spalmare la ripresa in un tempo infinito o anticipata, con il rischio di nuovi focolai”. Quella dell’Italia, ha proseguito Galli, “è stata una scelta sciagurata ma obbligata perché siamo riusciti a moltiplicare i posti di terapia intensiva, ma non le linee diagnostiche“. Di conseguenza “in vista della fase 2 ci troviamo ad avere una carenza di dispositivi diagnostici”, ha proseguito riferendosi anche ai test sierologici rapidi e poco costosi. Fare questi ultimi, ha osservato, non significherà però non fare il tampone perché avere gli anticorpi IgG, ossia le immunoglobuline G che possono indicare se l’infezione è avvenuta un mese prima, non significa essere guariti, ha detto ancora Galli, e resta il rischio che le persone possano ancora trasmettere il virus.

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