I container bloccati nei porti cinesi. Oppure semivuoti perché i fornitori da cui dipendono gran parte della meccanica, dell’automotive, della chimica, del settore dei materiali plastici e dell’elettronica sono fermi o producono al ralenti da settimane. La battuta d’arresto imposta dal coronavirus alla “fabbrica del mondo” ha messo in luce un nervo scoperto della globalizzazione: la fortissima dipendenza di tante filiere produttive da materie prime e componenti in arrivo dalla Cina, difficili da sostituire in termini di volumi e allo stesso costo. Fortunatamente la Repubblica popolare sta già ripartendo, ma i danni si vedono. La domanda è se il sistema, dopo questa lezione, si attrezzerà per diminuire il rischio di ritrovarsi nella stessa situazione in caso di future emergenze. Si tratta di diversificare i fornitori ma anche i centri di stoccaggio: oggi i maggiori hub logistici sono concentrati nel triangolo tra Pavia, Lodi e Piacenza, l’area più colpita.

“Il tessile-abbigliamento sta sperimentando cosa vuol dire trovarsi a corto di materie prime”, racconta Fabrizio Dallari, ordinario di Logistica alla Liuc dove è anche direttore del Centro sulla Logistica e il supply chain management. “Il distretto cinese di Prato, paradossalmente, è fermo perché non ha più tessuti. La farmaceutica poi è un caso eclatante: gran parte dei principi attivi sono fatti in Cina su brevetto e arrivano per via aerea nelle stive dei voli di linea. Ma il traffico aereo su quelle tratte si è ridotto moltissimo e le imprese si trovano senza scorte. Per fortuna hanno magazzino di prodotti finiti”. Dopo questa emergenza cambierà qualcosa? “Le aziende con più alta marginalità, in settori come moda e lusso, diversificheranno i fornitori di tessuti scegliendone alcuni anche in Europa. E sperimenteranno anche diverse modalità di trasporto, per esempio collegamenti terrestri lungo la Via della seta. E si attrezzeranno per aumentare le scorte dei componenti che richiedono più tempo tra l’ordine e la consegna. Sulle piccole imprese sono più scettico, difficilmente passata la buriana investiranno per evitare di ritrovarsi nella stessa situazione. Hanno una grande innovazione di prodotto ma non nei processi”.

Il distretto cinese di Prato, paradossalmente, è fermo perché non ha più tessuti

Per settori con catene di approvvigionamento più avanzate come l’automotive, invece, la diversificazione è già realtà: “I grandi gruppi di quel settore tendono ad avere un fornitore del Far East da cui comprano il 60-70% delle componenti e un altro più vicino, nell’Est Europa, per la parte rimanente”, spiega Enzo Baglieri, professore associato della Sda Bocconi dove insegna Gestione dell’Innovazione, della Tecnologia e delle Operations. “In questo frangente avranno aumentato gli ordini dal fornitore secondario”. Fa storia a sé Fca, i cui stabilimenti rischiavano il rallentamento o lo stop a causa della carenza dei componenti elettronici prodotti “su misura” per il gruppo dalla Mta di Codogno, che ha la produzione ferma. Ieri il prefetto ha dato via libera all’ingresso nella zona rossa di un camion che ha recuperato le scorte di magazzino, dando qualche giorno di respiro.

Baglieri in generale è ottimista sulla tenuta del manifatturiero italiano, perché “il sistema si è preparato al calo della produzione cinese pianificando una riduzione dei propri ritmi produttivi del 35-40% in modo da esaurire più lentamente i componenti disponibili”. Le conseguenze più pesanti, dunque, si sentiranno nelle prossime settimane mano a mano che si farà più evidente il “buco” causato dal drastico calo dei traffici container. “Ma per fortuna nel frattempo la Cina sta già ripartendo, ora viaggia all’85% della capacità produttiva“. Va anche considerato, aggiunge, che “già da 4-5 anni molte aziende stanno cercando alternative per ridurre la dipendenza dalla Cina alla luce del nuovo clima politico nei confronti della globalizzazione e del libero commercio. Privilegiano fornitori più vicini (per esempio dell’est Europa) soprattutto per i componenti di una certa qualità”. Perché un container ci mette intorno alle 6 settimane ad arrivare dalla Cina nei porti del Nord Europa e 4 settimane per raggiungere gli scali italiani. E in quel lasso di tempo – come stiamo sperimentando in questi giorni – sul mercato può cambiare tutto.

Un importatore brasiliano pretende pasta prodotta prima dell’emergenza

Se la produzione deve fare i conti con i problemi di fornitura, sul fronte opposto resta da vedere che impatto avrà la psicosi coronavirus sulla domanda estera: “Un importatore brasiliano ha chiesto a un’azienda che produce pasta di alta qualità di mettere su ogni pacco un timbro che attesti che è stata prodotta prima della scoperta dei focolai italiani…”. L’altro grande punto di domanda riguarda la logistica sul territorio italiano. Il settore è in allarme e lamenta da giorni pesanti ritardi nei controlli sulle merci in arrivo dall’estero e rallentamenti, quando non vera e propria paralisi, degli hub nazionali. Che sono concentrati, sottolinea Dallari, in un baricentro compreso “tra Piacenza, Pavia e Lodi, l’area più colpita dal virus e dalle ordinanze per il contenimento. Lì ci sono i magazzini di Ikea, Amazon, Ovs, Unieuro e delle aziende alimentari. Tra i lavoratori in zona rossa e quelli che stanno a casa per paura o necessità, la merce viene movimentata a scartamento ridotto”. Non rischiamo gli scaffali vuoti nei supermercati – casi di psicosi permettendo – perché la grande distribuzione ha scorte per diverse settimane. Ma il rallentamento di un settore con 85 miliardi di fatturato avrà un impatto notevole sull’andamento del pil.

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