Il divorzio è stato appena ufficializzato, ma i fantasmi dell’Europa non scompariranno presto per il governo britannico. L’Unione Europea rappresenta la metà del commercio internazionale del Regno Unito e se il premier Boris Johnson punta a ottenere un trattato simile a quello stipulato da Bruxelles con il Canada, allo stesso tempo non esclude una soluzione “australiana”, attualmente basata sulle regole del Wto. Una strada abbandonata dagli stessi aussie, che stanno trattando da un anno e mezzo un accordo di libero scambio con l’Unione Europea, per assicurarsi i benefici di accedere a un mercato che vale quasi 20 trilioni di dollari.

Il modello Corea: via i dazi, scambi aumentati – “La migliore relazione con l’Ue è e sarà quella di restare nell’Ue. Quando non si è membri dell’Ue si ha una situazione diversa e meno favorevole”, ha detto Michel Barnier, negoziatore capo europeo per la Brexit. “Questo non è mai stato fatto, ed è una vera sfida venirne fuori con un accordo commerciale come quelli che abbiamo con il Canada, la Corea del Sud o il Giappone”. Quello con la Corea è stato il primo accordo commerciale dell’Ue con un Paese asiatico. La maggior parte dei dazi all’importazione venne abolita nel 2011, quando le due parti si impegnarono ad eliminare il 98,7% dei dazi doganali in valore degli scambi commerciali, mentre dal 2016 sono stati eliminati i dazi all’importazione su tutti i prodotti, fatta eccezione per un numero limitato di prodotti agricoli. Tra il 2010 e il 2018 le esportazioni di beni dell’Unione Europea in Corea del Sud sono aumentate del 77 per cento. L’export dei servizi è cresciuto tra il 2010 e il 2017 dell’82%, mentre l’import si è incrementato del 66 per cento.

Il modello Giappone: meno ostacoli tariffari e non – In vigore da febbraio 2019, invece, il trattato con il Giappone ha creato l’area di libero scambio più grande del mondo che rappresenta quasi un terzo del Pil mondiale. L’accordo di partenariato ha soppresso il 97% dei dazi sulle merci importate dall’Ue, per un valore di 1 miliardo di euro. L’accordo ha inoltre eliminato una serie di ostacoli non tariffari in settori strategici come quello degli autoveicoli e l’alimentare, favorendo la crescita del commercio tra le due parti. A 12 mesi dall’inizio del partenariato, mentre ulteriori misure saranno implementate nel corso dei prossimi anni, gli scambi sono già cresciuti complessivamente del 6,6% rispetto all’anno precedente. Le esportazioni Ue di carne in Giappone sono aumentate del 12%, quelle di prodotti caseari del 10%, mentre l’export di vino è cresciuto del 17 per cento. Ma se il Regno Unito vuole “accesso a 450 milioni di consumatori, zero tariffe, zero quote, questo non avverrà in cambio di nulla e senza condizioni. Siamo a favore del libero commercio ma non siamo naïve”, ha specificato Barnier.

Johnson punta a un’intesa tipo Ceta – Dall’Unione Europea Johnson vorrebbe ottenere un trattato simile al Comprehensive economic and trade agreement, conosciuto anche come Ceta, ovvero l’accordo che Bruxelles ha stipulato con il Canada nel 2017, dopo 7 anni di negoziazioni. Questa formula garantirebbe al Regno Unito l’assenza di dazi e quote sui beni ma non sui servizi, che nel 2018 hanno visto esportazioni per quasi 100 miliardi di sterline, il 5,5% del Pil, collegate ad attività bancarie e finanziarie della City. Anche per i beni, tuttavia, ci sarebbero ripercussioni riguardanti maggiori controlli alla frontiera e necessità di rispettare gli standard dell’Unione.

Londra ha già firmato accordi. Ma coprono solo l’8% del valore dei suoi scambi – L’Unione Europea è di gran lunga il maggior partner commerciale del Regno Unito con il 49% degli scambi, secondo i dati riferiti al 2018 del Dipartimento Uk del commercio internazionale. Un ulteriore 11% viene raccolto con Paesi che hanno trattati commerciali con Bruxelles, mentre il 40%, compresi Giappone e Singapore che hanno solo recentemente attivato gli accordi con l’Unione, si dirige nel resto del mondo. L’appartenenza all’Unione Europea garantiva a Londra i vantaggi di oltre 40 trattati commerciali con 70 Paesi diversi, e in vista dell’uscita il Regno Unito ha replicato 20 di tali accordi con 50 Paesi. Al momento gli accordi più importanti sono stati siglati con Svizzera (32 miliardi di sterline), Norvegia e Islanda (31 miliardi) e Corea del Sud (15 miliardi). Nel 2018 il commercio internazionale del Regno Unito ha avuto un valore 1.300 miliardi di sterline e questi 20 accordi coprono solo l’8% del valore complessivo. Nei prossimi mesi Londra avvierà le negoziazioni con Giappone, Australia, Nuova Zelanda e Stati Uniti, il partner più importante per Londra dopo la Ue. E le elezioni presidenziali a stelle e strisce non promettono di favorire una conclusione rapida delle trattative.

Ogni Paese avrà diritto di veto. E ci sono interessi divergenti – Il periodo di transizione durerà 11 mesi, con la possibilità di estenderlo al massimo per 2 anni, fino al 2022. In questa finestra saranno aperti 12 tavoli di negoziazione diversi, per raggiungere un accordo complessivo sul quale, tuttavia, dovranno concordare tutti i 27 Paesi dell’Unione. Ogni Paese ha infatti il diritto di veto sul nuovo accordo, e sebbene il fronte europeo sia stato compatto nell’accompagnare gli inglesi all’uscita, così potrebbe non esserlo nella definizione del trattato commerciale, per gli interessi divergenti tra i membri dell’Unione. La Germania vale infatti il 32% dell’import britannico di veicoli e mezzi di trasporto e il 21% di macchinari e attrezzature elettriche. Dall’Olanda arriva invece il 23% di computer e attrezzature da ufficio, mentre la Francia è in testa per l’import di bevande con il 23%, seguita dall’Italia con il 14 per cento. Tra gli aspetti più controversi del modello Ceta c’è l’Investor-state dispute settlement, meglio conosciuto come Isds, che permette a un investitore di citare in giudizio uno Stato straniero. Se andasse in porto questa soluzione il Regno Unito potrebbe diventare terra di sbarco di multinazionali europee, che con una semplice sussidiaria oltre Manica, mantenendo le attività nei confini continentali, avrebbero la possibilità di portare in tribunale gli stessi Stati membri dell’Unione.

Senza accordo formale subentrano le regole del Wto e il modello Australia – Se non si riuscisse a giungere a una soluzione “canadese”, il modello di riferimento annunciato dal premier britannico è quello australiano, che vuol dire nessun accordo formale di libero commercio, e dunque il ricorso alle regole del Wto e alla Clausola della nazione più favorita. I Paesi appartenenti al Wto devono applicare le tariffe riservate al Paese terzo più favorito, e siccome quasi tutti i Paesi al mondo sono membri del Wto, la tariffa della nazione più favorita è quella che ciascun Paese applica sui beni importati. Con l’Australia è attivo un “partnership framework” siglato nel 2008 con l’obiettivo di facilitare lo scambio di beni e prodotti industriali riducendo alcune barriere tecniche. Ma la stessa Australia, dal 18 giugno 2018, sta negoziando con l’Unione Europea un trattato di libero di commercio che, come afferma il Dipartimento per gli affari e il commercio estero australiano, ha “la potenzialità di aprire un mercato di mezzo miliardo di persone e 18,7 trilioni di dollari americani di Pil ai prodotti e servizi australiani”. Secondo i dati dell’esecutivo di Canberra, l’Unione Europea è il secondo partner commerciale dell’Australia, il terzo mercato per export e il secondo per export di servizi. L’Australia rappresenta invece per l’Unione Europea solo il 18esimo partner commerciale, il 15esimo per export e il 31esimo per importazioni, con evidenti rapporti di forza a favore di Bruxelles. Dopo cinque round di negoziazioni, le parti sono ancora lontane dalla chiusura dell’accordo.

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