A dieci giorni dalla Brexit Londra e Bruxelles sono già ai ferri corti. C’era da aspettarselo, Boris Johnson vuole trasformare il Regno Unito in una nazione con poche tasse, ancor meno restrizioni legislative e molte opportunità. Bruxelles vuole esattamente il contrario, e cioè continuare a condizionare il Regno Unito con le proprie leggi e minaccia di alzare barriere all’importazione se ciò non succede.

Al centro della disputa c’è una visione relativamente nuova: creare una sorta di Singapore sul Tamigi, uno stato diverso da quelli che lo circondano. Adesso che sappiamo con certezza che alla fine dell’anno Londra non farà più parte delle capitali dell’Ue vale la pena approfondirne il significato, anche se in questo blog ne ho già parlato.

Lanciata nel 2017 dall’ex cancelliere Philip Hammond, la visione di una Singapore sul Tamigi è piaciuta molto fin dall’inizio ai Brexiters che l’hanno spesso usata per descrivere il futuro assetto della nazione. Tuttavia, non è mai stata accompagnata a un chiaro piano d’azione. Più di un piano a lungo termine, la frase Singapore sul Tamigi è stata un motto, una promessa di modernizzare il paese e di reinventare il suo ruolo geopolitico una volta libero dal condizionamento di Bruxelles. Ciò non ha impedito le critiche. Tra queste la paura che il Regno Unito si trasformi in un paradiso fiscale, un paese con legislazione lassista ed economia non regolamentata, a pochi chilometri dal suo vicino super regolamentato, l’Unione europea.

Ma è proprio così? Singapore non è un paradiso fiscale per coloro che vogliono evitare le tasse, piuttosto è un sistema politico in cui il governo e l’economia sono indissolubilmente interconnessi, e infatti dopo il crollo finanziario del 2009 Singapore si è ripresa proprio grazie alla sua solida e onnipresente burocrazia che detiene quote di controllo azionario nella maggior parte delle più grandi imprese del paese. Tutto ciò, unito a una meticolosa pianificazione economica da parte di funzionari tecnocratici, consente al governo di Singapore di influenzare il proprio mercato per garantire che la crescita rimanga sulla buona strada. Boris Johnson vorrebbe disegnare il futuro del Regno Unito alla luce di una relazione altrettanto intima tra il governo e l’economia sullo sfondo di una liberalizzazione prodotta dall’uscita dall’Ue.

Poco ancora si sa sui dettagli, ma di certo l’agenda del governo includerà: l’introduzione di regolamenti finanziari meno rigidi; la riduzione delle imposte per attrarre società e investimenti stranieri; una deregolamentazione per dare una spinta alla produzione; finanziamenti statali per sostenere le imprese nazionali e quindi avvantaggiarle rispetto ai concorrenti europei; la negoziazione di nuovi accordi commerciali e una politica di immigrazione altamente selettiva, che di fatto consente solo alle persone di cui il paese ha bisogno di venirci a vivere.

I sostenitori di Johnson sono fermamente convinti che il Regno Unito sarà in grado di ridurre le tasse perché non più vincolato dalle norme Ue in materia di imposta sul valore aggiunto e potrà liberalizzare e investire nella propria economia perché controlla la moneta nazionale. Naturalmente, l’Unione europea si opporrà a tutte queste riforme riducendo l’accesso dei prodotti e servizi britannici al proprio mercato.

Boris Johnson non se ne preoccupa, è convinto che se il Regno Unito accetta il suo nuovo ruolo, e cioè di essere un concorrente dell’Unione europea e non più un membro o un partner – come è stato sottolineato da molti leader europei tra cui Angela Merkel – allora il ridotto accesso all’Ue non sarà poi cosi problematico: Londra guarderà ad altri mercati e farà di tutto per aumentare la competitività.

A tal fine, la Gran Bretagna potrebbe svalutare la sterlina e anche annacquare gli standard europei, spesso eccessivi, relativi alla produzione. In alcune aree, poi, come i servizi digitali, lo sviluppo di software e l’editing genetico nella biotecnologia, il Regno Unito potrebbe abbandonare la normativa dell’Ue e introdurne una sua. Così facendo diventerebbe una nazione molto più attraente dove fare affari e condurre ricerche.

Il 2020 sarà un anno interessante per il Regno Unito, ma forse la vera svolta avverrà nel 2021 quando sapremo che strada prenderà Londra fuori dall’Unione europea.

Articolo Precedente

Bilancio Ue, Conte: “No a proposta finlandese: Italia ha linea rossa. Il 25% dei fondi per clima e cambiare i criteri sulla politica agricola”

next
Articolo Successivo

Brexit, il divorzio tra Ue e Regno Unito placherà gli animi solo più in là. E intanto c’è un’ombra che avanza

next