Ieri sera anch’io ero tra gli oltre 10 milioni di telespettatori che guardavano il 70esimo Festival di Sanremo. Mi duole ammetterlo, ma la conduzione di Amadeus mi è piaciuta. Ero partita con mille pregiudizi su di lui e con una stima decisamente bassa rispetto al suo ruolo di conduttore e invece ho cambiato idea e ne sono felice. Per quanto riguarda i cantanti in gara, vorrei premettere una cosa importante: sono di parte, parecchio di parte, ma dico che Diodato ha la più bella canzone del Festival, anche se ancora non ho sentito le altre 12. Fai Rumore ha una forza impetuosa, è coraggiosamente romantica, struggente e delicata al punto giusto. Non c’è mai banalità nei testi di Antonio e la sua voce non ha davvero eguali su quel palco. Dico che – per me – vincerà e glielo auguro con tutto il mio cuore. Da quindici anni, ormai.

Detto ciò, la kermesse sanremese non ha del tutto deluso, anzi. Del conduttore ho già parlato, aggiungo solamente che ho apprezzato molto il suo evidentissimo “passo indietro” per lasciare spazio a tutto il resto, donne in primis. Conseguenza di tutte le polemiche innescate dalla sua ormai famigerata conferenza stampa pre-sanremese, ma la scelta di rimanere un po’ in disparte non è stata – a mio avviso- per nulla scontata. Ho apprezzato anche il riferimento iniziale ai suoi esordi e l’emozione per il sogno di una vita finalmente realizzato. In definitiva posso dire che forse Amadeus mi sta sulle palle solo quando conduce Soliti Ignoti.

Se da un lato ho elogiato il conduttore che credevo deludente, dall’altro devo esternare la piccola delusione per un Fiorello che credevo molto più spumeggiante. Ma siamo solo alla prima serata, voglio dargli tempo per recuperare un pochino. Promosso invece Tiziano Ferro, persino quando sfida l’inarrivabile Mia Martini e si cimenta nella meravigliosa Almeno tu nell’universo. Sul finale si commuove, la voce si spezza, abbraccia Amadeus e, incurante dei microfoni accesi, gli dice “Che palle! Ho rovinato tutto” come un bambino deluso per aver sbagliato l’esposizione della poesia in classe. Finalmente! Un po’ di verità, di genuina EMOZIONE, al di là dei gobbi scritti e della scaletta. “E’ la prima volta che un uomo canta questa canzone” ammette Ferro sul palco ed è stata un’ottima prima volta, dico io.

Veniamo alle due donne protagoniste di questa prima serata. Diletta Leotta è gnocca e su questo non c’è dubbio e soprattutto non c’è niente di male, in aggiunta l’ho trovata spigliata e solare (a parte il siparietto “comico” su un finto collegamento sportivo con Amadeus/Amadinho). Mi ha lasciata però un po’ perplessa il suo monologo sulla bellezza che parte bene, ma sfocia in un elogio alla spaesatissima nonna seduta in prima fila e ad una gigantografia di sé stessa sul videowall che la mostra invecchiata, ma sempre gnocca.

La colpa non è sua, ma il testo che propone non ha la forza che avrebbe potuto avere, semmai smarrisce via via la strada maestra per approdare ad una serie di luoghi comuni sull’importanza di non essere solo belle, “chissà se sarò felice come mia nonna a 85 anni […]il tempo passa per tutti, ma non passa per tutti allo stesso modo […] Io non ho paura perché mia nonna mi ha insegnato ad essere diversamente bella”. Forse sarebbe il caso di ammettere che la bellezza è un dono preziosissimo – e come tale va elogiato senza tanti fronzoli – ma che non sempre viene dal creatore o chi per lui, ma anche da un ottimo chirurgo estetico.

Come nel caso della Leotta che forse, dico forse, non era proprio la persona più adatta ad affermare che la bellezza “ti capita”. Semmai, sarebbe stato davvero utile far passare il messaggio che la bellezza può anche essere una conquista e che in questa conquista non c’è nulla di sbagliato o di amorale. Voler essere belli, avvenenti, sexy non è un crimine o una cosa di cui vergognarsi, ma un diritto di qualsiasi essere umano e giudicare qualcuno per questo non ci rende affatto persone migliori. La libertà di una donna, nel caso specifico, passa anche per questo diritto. Il resto è solo retorica. Perciò quella di Diletta Leotta è stata un’occasione mancata.

La seconda protagonista femminile del Festival è stata Rula Jebreal. Giornalista e scrittrice di origine palestinese, bellissima, piena di classe ed eleganza, è salita sul palco dell’Ariston con una fierezza nello sguardo che poche donne hanno e che deriva dalla grande consapevolezza del proprio vissuto. Il suo monologo, scritto a quattro mani con Selvaggia Lucarelli, è potente e doloroso. Parole scritte con ispirazione, parole che descrivono la vita e la sofferenza estrema di una donna – sua madre, morta suicida dopo essere stata stuprata da bambina – attraverso la quale si parla di tutte le donne stuprate, degradate e private della propria dignità. Parole dure e dirette, alternate a testi di canzoni famose, scritte da uomini che invece amano le donne: Sally, La Donna Cannone e La Cura. Rula si emoziona fino alle lacrime quando nomina sua figlia, seduta in platea e con la stessa emozione si rivolge a tutte le donne, a tutte le madri e a tutte le figlie. Un grande momento di Televisione che fa vero servizio pubblico.

Indubbiamente degna di nota è l’esibizione di Achille Lauro, che durante l’esibizione lascia cadere il suo mantello nero di Gucci lasciando il posto ad una tutina di strass in stile Borat. Un coup de théatre divertente e provocatorio, che lascia però poco spazio alla musica. A proposito di colpi di scena, ecco arrivare Albano & Romina in gran rispolvero presentati niente popo di meno che dalla figlia Romina jr. Da un momento all’altro mi aspettavo un’incursione di Barbara D’Urso a completare il quadretto… col cuore!

Tirando le somme di questa prima serata, posso dire almeno di non essermi annoiata, come avevo abbondantemente previsto di fare. È già qualcosa.

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