Ho aspettato un mese dall’uscita dell’ultimo film di Checco Zalone per dire la mia su Tolo Tolo. Molti hanno urlato a Zalone moralista retorico, liquidando la pellicola come “Zalone che non fa ridere” proprio per un’idea poco originale. Mi domando allora cosa si aspettassero.

Certo gli incassi di Zalone sono stati inferiori al precedente Quo Vado?, eppure questo non può essere la condanna definitiva per un film che comunque sfiora i 50 milioni di euro, che ha certo monopolizzato le sale delle città italiane (ma questo succede anche con pellicole Disney) e che comunque sarà uno dei maggiori incassi italiani della stagione.

Non si tratta di essere detrattori o sostenitori, zaloniani oppure contro-zaloniani, ma di considerare il maggior film italiano della stagione come un termometro culturale del paese, in questo caso sociale e politico (anche Quo Vado? lo era stato). Più Zalone diventa surreale più il pubblico italiano sembra non comprendere. Ma in questo caso il surreale si sovrappone al reale, esprimendo la contraddizione nazionale: si è più italiani se si è “fasciosalvinisti” oppure “eurosolidali”?

Zalone proprio su questa opposizione costruisce il suo racconto, partendo dalla disgraziata apologia di un imprenditore di provincia che fugge, se la dà a gambe dopo aver evaso il fisco e aver indebitato parenti, in cerca di un paese libero da vincoli e leggi oppressive perché non permettono di sognare.

Tolo Tolo, l’esclamazione che il ragazzino africano coprotagonista Doudou inventa/storpia da “solo solo” di Checco mentre gli viene insegnato a nuotare (altro che buonismo dunque), è pura satira del quotidiano, dentro e fuori dal confine nazionale. La prima prova da regista di Luca Medici è abile a non soffermarsi sulla retorica dell’evento, ma fa emergere quella più importante della nazione e del nazionalismo.

Se i documentari indipendenti – quelli di “sinistra”, come qualcuno magari convinto nazionalista affermerebbe – hanno fatto un genere e un’antologia del tema, Zalone è stato capace di creare una comicità dissacrante sul presente, come i britannici Monty Python hanno fatto negli anni Ottanta con le loro pellicole confrontandosi umoristicamente con il passato, la storia e la religione. I Python rimarranno intellettuali della comicità, ma la sfida di Zalone nel caos informativo odierno non va sottovalutata proprio considerando la disponibilità di mezzi di comunicazione: essere pungente su temi noti e creare un dibattito fin dal teaser dello stesso film, non trailer come qualche giornalista ha confuso.

I migranti oltretutto non sono rappresentati come vittime, ma come persone con interessi e stereotipi sul Belpaese (dalle griffe di moda al cinema). E non è la prima volta, visto che già nel 2010 in Che bella giornata giocava con gli stereotipi sulla cultura araba per raccontare la fobia dello straniero e del terrorismo.

Al quinto film non è dunque solo un fenomeno di incassi. Se qualcuno storce il naso forse non è per Zalone attore, regista, musicista e cantante (qui al massimo dell’ispirazione), ma per quello che racconta. E anche questo dovrebbe far pensare.

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