“Il mio libro è un fumetto. Non un film, non un romanzo. È stato fatto in un certo modo, e progettato per essere letto in un certo modo”. Sono le parole con cui Alan Moore ha in passato giustificato il suo totale disinteresse – quando non si trattava di disappunto – per ogni trasposizione cinematografica o televisiva del suo capolavoro Watchmen (1986), probabilmente il miglior fumetto mai scritto e pubblicato con dei supereroi al centro della narrazione, proprio perché in esso l’autore britannico ha decostruito e messo in discussione una volta per tutte ruoli e ragion d’essere relativi al concetto di supereroe.

Questi personaggi fittizi, nei decenni precedenti, avevano rappresentato l’entusiasmo fanciullesco e sgargiante con cui la cultura pop occidentale aveva celebrato il suo ingresso nella seconda metà del XX secolo. Un periodo di conflitti culturali e silenziosi, di minacce più paventate che esibite, di moralità labili e altrettanto labili confini etici. In definitiva, un periodo in cui la naivete del superomismo iniziava a risultare poco credibile, talvolta puerile o, peggio, sospetta.

Nel 1986 Alan Moore aveva deciso che i supereroi avrebbero dovuto somigliare al tempo in cui vivevano, e quindi dovevano riflettere tutte le contraddizioni di chi si trovava diviso tra un potere vastissimo, fosse esso solo intellettivo o di manipolazione della materia e del tempo, e uno scenario geopolitico più interessato al mantenimento dello status quo che al conseguimento di un vero equilibrio planetario.

Per queste sue tematiche Watchmen è stato, ed è ancora oggi, una pietra miliare della letteratura in generale, e non solo di quella disegnata: enciclopedico rispetto al genere che ha saputo esaltare, ma anche e soprattutto relativamente al periodo storico che l’ha visto nascere. Per gli appassionati, Watchmen è diventato al contempo dogma e idolo sacro, e tutti sanno cosa accade a chi osa toccare un’icona simile, specie se l’autore in questione non brilla per entusiasmo – atteggiamento più che legittimo – di fronte all’ipotesi di un rimaneggiamento del proprio lavoro.

Per alcuni, dopo Watchmen non avrebbe avuto più senso scrivere storie di supereroi: Moore avrebbe scritto la storia definitiva, rendendo obsoleto qualsiasi personaggio mascherato ignorasse la sua lezione.

Questa premessa è necessaria nel discutere la serie Watchmen di Hbo, ideata da Damon Lindelof (autore di Lost, The Leftovers, Prometheus), di cui si è da poco conclusa la prima stagione e che al fumetto è liberamente ispirata. Col senno di poi, possiamo affermare che l’idea dello sceneggiatore statunitense non è stata quella di dare una prosecuzione alla storia di Moore, quanto di servirsi dei personaggi da lui creati, diventati delle icone a loro volta e quindi portatori di valori iconografici e letterari, per raccontare una storia diversa che coinvolgesse lo Zeitgeist dell’America del 2019.

Parafrasando Moore, potremmo toglierci d’impaccio e dire che, non trattandosi di un fumetto, la serie non può essere messa a paragone col materiale originale in nessun modo, ma va presa per quello che è: il tentativo di remixare un’icona non per raccoglierne l’eredità, ma per descrivere l’epoca in cui viene prodotto il suddetto remix. È bene chiarirlo subito: il calibro delle due opere è decisamente diverso, non solo a causa del diverso tipo di media utilizzato, ma anche per quanto riguarda focus e obiettivi della narrazione.

Se il fumetto era infatti la decostruzione definitiva dell’immaginario supereroistico, la serie tv è un tentativo, ambizioso ma più circoscritto, di decostruzione dell’America al tempo degli inquietanti rigurgiti della white supremacy. La differenza è che in questo caso l’autore si serve di personaggi creati da un altro autore (lo stesso aveva fatto Moore per le tematiche da lui scelte, dato che i personaggi di Watchmen erano prevalentemente ispirati agli eroi della defunta Charlton Comics, all’epoca caduti nel dimenticatoio editoriale e, solo dopo il successo di Watchmen, rivitalizzati dalla DC Comics).

Il conflitto viene dunque spostato da quello tra Usa e Unione Sovietica a quello etnico, interno alla comunità civile e politica statunitense. Negli Stati Uniti liberal in cui Robert Redford è il Presidente da tanti anni, il vigilantismo in maschera è ancora illegale. Ma alcuni tutori dell’ordine sono costretti ad andare in giro col volto coperto, poiché una cellula terrorista suprematista ha ritrovato i diari del defunto Rorschach, scoprendo la terribile verità sull’incidente del 1985, quello che pose fine alla Guerra Fredda.

Le vicissitudini che riguardano l’ex poliziotta e vigilante Angela Abar, il cui diretto superiore si rivela essere un doppiogiochista legato alla cellula suprematista, la trascina al centro di una serie di scontri tra forze più o meno occulte: in palio c’è l’acquisizione dei poteri del Dottor Manhattan, ambiti sia dai suprematisti bianchi – stufi di dover chiedere scusa per secoli di oppressione e sopraffazioni ai danni delle minoranze -, sia dagli eredi del controverso, machiavellico utilitarismo narcisista di Ozymandias (qui interpretato da un pimpante Jeremy Irons).

A parte questi ultimi due citati e Spettro di Seta (nel 2019 nota solo come agente Laurie Blake), tutti gli altri personaggi sono completamente nuovi e creati apposta per la serie, per rappresentare ognuno una prospettiva diversa di un conflitto altrettanto sentito, reale e soprattutto attuale. Lindelof osa sin dall’inizio, attribuendo al personaggio di Hooded Justice (nel fumetto, uno dei Minutemen) un’origine afroamericana e soprattutto un ruolo pionieristico ma sacrificato, in un’America lesta ad appropriarsi culturalmente delle iniziative partite dalle minoranze che la animano.

Con buona pace di Alan Moore, si tratta di una prima stagione ambiziosa, coerente nella sua originalità e soprattutto soddisfacente (tanto più che il coautore di Moore, il disegnatore Dave Gibbons, ha espresso il suo entusiasmo per il progetto).

Senza rivelare troppo della trama è giusto segnalare che, nel conflitto tra umanità suprematista e umanità saccente, la serie sembra fare il tifo per una terza umanità, solo apparentemente meno consapevole delle altre due, eppure altrettanto capace di evolversi, pur nella propria concezione solo lineare del tempo. D’altronde è questa l’unica concezione in grado di restituire dignità a un’empatia che altrimenti sarebbe impossibile.

La riflessione finale sulla fallibilità della natura umana e sulla sua effettiva capacità di evolversi nel Dottor Manhattan – e quindi di osservare il tempo circolarmente in modo da decostruire la propria realtà – apre nuovi scenari totalmente indipendenti dal materiale originale, per i quali sarà tuttavia necessario attendere la conferma di una seconda stagione.

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