Il 4 novembre 2011 Genova visse una delle sue alluvioni più devastanti. Il Rio Fereggiano esondò in città, provocando 6 vittime. E sempre il 4 novembre, cadeva l’anniversario di una delle catastrofi alluvionali più severe del secolo scorso. Ai primi di novembre del 1966 il maltempo colpì molte aree del paese, compresa Venezia sommersa dall’Aquagranda, ma fu l’alluvione di Firenze a scuotere il mondo. Vedere inondata da metri d’acqua una città d’arte, patrimonio universale, produsse un enorme impatto emotivo.

L’alluvione di Firenze non arrivò del tutto inaspettata: era la 60esima in poco meno di 8 secoli. Nel 1845 Giuseppe Aiazzi aveva scritto – in Narrazioni istoriche delle più considerevoli inondazioni dell’Arno e notizie scientifiche sul medesimo – che “da tal prospetto si può con qualche probabilità inferire che ogni 24 anni accada una piena media; ogni 46 una grande; ed ogni 100 una straordinaria. E questa probabilità acquista molti gradi di certezza, considerando le varie escrescenze ed alluvioni accadute dopo il 1761, e specialmente quelle degli anni 1780, 1804, 1809, 1839 e 1844”.

Stavolta il livello delle acque sfiorò i due metri in Piazza Santa Maria Novella e in piazza della Signoria, ma sia in riva destra sia in sinistra l’Arno arrivò a quasi cinque metri sul piano della strada: 4,85 in Santa Croce, la zona più colpita; e 4,05 in San Frediano sulla riva opposta. Proprio qui Gianni Lonzi, il pallanuotista del Settebello dell’oro olimpico nel 1960, mise in salvo 49 persone tuffandosi nelle acque luride che avevano sommerso l’Oltrarno. E meritò qui la sua medaglia più bella, quella al valore civile.

Il 4 novembre 2019, il livello del fiume Mono in Benin ha sfiorato i 9 metri, inondando circa 4mila ettari di terra al confine tra Togo e Benin. L’evento ha colpito circa 8mila persone che vivono nella regione marittima del Togo e 32mila abitanti del Benin, dove strade, case ed edifici pubblici sono stati allagati e i centri sanitari sono inaccessibili, dopo che le acque hanno bloccato le vie di comunicazione.

Non sappiamo se qualche campione olimpico si sia prodigato nei soccorsi e dubito che la storia ci possa confortare con le cronache delle alluvioni dei secoli scorsi, ma possiamo escludere che l’evento possa conquistare le prime pagine dei giornali. Finora, i media internazionali non hanno dedicato molto spazio alla terribile sequenza di disastri naturali che negli ultimi due anni ha colpito l’Africa.

Nel 2018 e nel 2019 le alluvioni hanno provocato danni enormi tanto in Africa orientale, quanto in quella occidentale. Pochi giorni fa la Repubblica Centrafricana ha dichiarato lo stato di emergenza per la catastrofe nazionale che ha colpito il paese, invocando il supporto della comunità internazionale. Nel frattempo, lo Uebi Scebeli (Shabelle River) ha inondato nuovamente Belet Uen (Beletweyne) dove 40 anni fa avevamo lavorato a un piccolo progetto idroelettrico promosso dall’Università Nazionale Somala.

Non è una novità assoluta, giacché nel maggio dell’anno scorso sia lo Scebeli sia il Giuba avevano provocato danni enormi con migliaia di sfollati: secondo il Norwegian Refugee Council, nel 2018 1,3 milioni di somali ha dovuto lasciare la propria casa e, in questi giorni, altri 270mila lo stanno facendo. E l’economia di intere nazioni sta per essere messa in crisi dalle alluvioni autunnali di quest’anno, dal Kenya alla Nigeria, dal Ghana al Cameroon.

L’Africa è senza dubbio il continente più vulnerabile all’impatto degli estremi idrometeorologici. Nonostante sia il continente che meno contribuisce alle emissioni di gas serra, è anche quello più esposto agli effetti del riscaldamento globale, sia per la sua posizione geografica, sia in ragione del suo assetto sociale ed economico. A partire dall’inizio del millennio, l’Africa è stata colpita con frequenza sempre maggiore da siccità, ondate di calore e inondazioni.

E inizia a sperimentare gli effetti dell’innalzamento del livello del medio mare. Gli eventi di questi giorni segnalano la scarsa pianificazione e la mancanza di preparazione alle catastrofi da parte dei governi africani, prigionieri di un circolo vizioso: l’alternanza di siccità e inondazioni li costringe a far fronte all’emergenza degli eventi, anziché elaborare politiche proattive, in grado di mitigare l’impatto di questi fenomeni.

Per affrontare la sfida, i paesi africani dovrebbero investire quote importanti delle scarse risorse disponibili nelle strategie in grado di comprendere le attuali carenze e prefigurare misure di adattamento. E collaborare con gli istituti di ricerca per comprendere meglio i fenomeni climatici e predisporre modelli – basati su una filosofia bottom-up, anziché sul tradizionale approccio top-down a cui siamo stati finora abituati – che li aiuterebbero a prepararsi alle catastrofi con l’obiettivo di ridurne gli impatti.

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