“Un’accessibilità che non pregiudichi la complessità dei temi femministi […] rappresenta oggi una delle sfide più difficili di un movimento sempre più fluido e frammentato, che cerca di trovare la strada per tornare ad avere un forte impatto politico”. Questo è il tentativo, ben riuscito nonostante il linguaggio non semplice, del libro di Benedetta Pintus e Benedetta Da Vela dal titolo Siamo marea. Come orientarsi nella rivoluzione femminista. L’emancipazione femminile è una rivoluzione, almeno pari per portata a quella statunitense, francese e sovietica.
Dal neolitico, e cioè dal momento in cui l’essere umano si stanzia, la donna vive una condizione di inferiorità ed oppressione, che nasce dalla materialità delle condizioni di lavoro e dall’importanza della forza fisica. Dalla fine dell’ottocento, con l’industrializzazione e la fine del predominio della forza fisica, la donna può essere uguale all’uomo: comincia una nuova storia, ben riassunta nel volume.
A scuola non viene insegnata, nelle tv non se ne parla, se non per gli aspetti più efferati (femminicidio o, meglio, muliericidio). La parità non è stata raggiunta e nei paesi a capitalismo avanzato, compresa l’Italia, avanzano nuove forme di oppressione, che si sommano a quelle particolari del consumismo edonista (sottoprodotto del liberismo) per cui tutto è una merce che si deve vendere. Mi impressionò qualche anno fa Lella Costa che, parlando di parità, disse che a suo parere le donne saranno libere e vivranno una situazione di equità quando potranno invecchiare senza paura e senza remore. Oggi non è così.
Il libro di Pintus e Da Vela è un vademecum dei femminismi, con interviste a protagoniste privilegiate e con un taglio storico che dà profondità al ragionamento. Una parte importante dello stesso mette in relazione i femminismi con i movimenti Lgbtqi, a partire dall’esperienza, tutta da scoprire e valorizzare, di Non una di meno. L’intento è ancorare la costruzione di un movimento maggioritario di donne e uomini libere e liberi ad un concetto: il femminismo intersezionale.
Il femminismo intersezionale nasce nei suoi caratteri col femminismo stesso e conosce una prima teorizzazione nei movimenti femministi statunitensi.“Poiché ciascuna persona è un individuo complesso la cui identità sociale è composta da elementi diversi (genere, classe, etnia, orientamento sessuale, livello di istruzione e molto altro), affinché le lotte per le pari opportunità siano davvero efficaci devono prendere in considerazione il mosaico di variabili e il modo in cui si intrecciano fra loro”.
Vi sono diverse oppressioni, e ogni donna e uomo vive situazioni di privilegio e di oppressione che devono essere riconosciute sia nel campo della vita privata che nella sfera pubblica. “Non un’ideologia in grado di leggere tutti i fenomeni, ma piuttosto una cassetta di strumenti […]. Essere femminist* intersezionali significa […] porsi in ascolto e cercare di contrastare la tendenza, molto diffusa […] nella cultura occidentale borghese e colonialista, di pensare che il nostro approccio sia unico e universalmente valido e di agire senza pensare che, pur se non prendiamo parte attiva alle discriminazioni e alle oppressioni, siamo comunque tutt* inseriti in una fitta e complicata rete di privilegi, che vanno […] riconosciuti per permettere un avvicinamento sincero di apertura, ascolto e comprensione delle esperienze […] di chiunque”.
C’è un ruolo per gli uomini? Sì. Decostruire, a partire da sé stessi, il patriarcato e maschilismo della società nella sua vita quotidiana e in quella pubblica e cambiare concretamente. Ogni giorno.
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