Nei giorni scorsi Aldo Cazzullo non è stato l’unico a notare una “strana euforia” intorno alla nascita del nuovo governo: “Ogni sorta di istituzione, comitato, fondazione italiana e mondiale si è rallegrata per la nuova era che si apre. La legislatura continua […] i barbari non arrivano più. Un’atmosfera che ricorda il 2011 e l’insediamento del governo Monti; la fine è nota”. E avverte: “Aver negato i ‘pieni poteri’ a Salvini non è un obiettivo di poco conto. Ma se il governo non rimetterà in moto il Paese, avrà soltanto guadagnato tempo. Allora non basteranno le congratulazioni dell’Europa, un tweet di Trump e forse neanche una nuova legge proporzionale per allontanare la tempesta”.

Credo che parte di questa euforia si debba a Nicola Zingaretti, piacevole sorpresa. Fino a pochi giorni fa si è mosso benissimo. Ha interpretato la domanda (di parte) degli italiani, di un’alleanza vera fra Pd-M5s intorno a un progetto-Paese di lungo termine. Ha avuto il coraggio di dire che, per far ciò, bisognava superare gli odi reciproci, l’arroganza, la prepotenza, e scegliere la strada dell’ascolto, dell’amicizia, dell’umiltà di chi cerca soluzioni. Gli italiani chiedono alla politica, e a ogni governo, una cosa sola: fermare il declino nel quale l’Italia s’è avvitata. Il fatto che Zingaretti lo abbia capito, che abbia anche accennato a possibili autocritiche del Pd, ha riacceso le speranze.

Ora tutti chiedono: che ne pensi del nuovo governo? Si riferiscono alla qualità dei nuovi ministri. Il ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti, eccellente economista, spiega: “Guardi, io… sono un docente d’ateneo… e in quel campo credo di avere visione e progetti”. Proprio quello che ci vuole. La sua visione (su “come” fare) nasce dalla conoscenza. Tutti i suoi colleghi hanno una visione adeguata per fare delle “cose buone”. Forse non tutti ce l’hanno a un livello tale da salvare un Paese moderno dal declino. Se l’asticella è alta, la strategia dev’essere… geniale! Tanto più in macroeconomia…

Vediamo innanzitutto il primo caso. Il primo grafico presenta una media mobile di un indice di diseguaglianza dei redditi, che l’Istat chiama “Incidenza della povertà relativa”. Lo presento perché il nuovo governo ha detto che vuole innanzitutto ridurre le diseguaglianze: auguri!

Il secondo grafico, tuttavia, mostra alcune conseguenze socio-demografiche della crisi economica degli ultimi anni. L’asse di destra rappresenta il numero di persone in povertà assoluta (linea rossa): sette milioni nel 2018. L’asse di sinistra riporta il numero di giovani fra 24 e 34 anni formalmente (in realtà sono meno) residenti in Italia (linea tratteggiata), circa 718.000 a metà 2019; e il numero di nascite ogni anno, circa 439.700 nel 2018. Queste variabili si impennano (povertà) o crollano (giovani, nascite) dal 2011.

Moltissime altre variabili (disoccupati, disuguaglianze, suicidi, debito pubblico, ecc.) si comportano in modo analogo: s’impennano nel 2008-12. Alcune migliorano poi lentamente dal 2014-15 (suicidi, disoccupati), dando la sensazione che “ne stiamo uscendo”. Ma altre continuano a peggiorare: rilanciando il declino da nuove direzioni. La politica può tentare di affrontare un problema alla volta, ma questo significa essere privi di visione sistemica, non capire che c’è una radice comune che, se non viene rimossa, vanifica gli sforzi settoriali.

Che ne pensano i lettori? Qual è la “radice” comune che fa peggiorare bruscamente tutti gli indicatori nel 2008-09 e poi li fa strapeggiorare nel 2011-13? Il nuovo governo ha una visione sistemica adeguata a “fermare il declino”, o si limiterà a gestirlo nel modo migliore possibile, limitandosi a attenuarne le conseguenze peggiori? Quali saranno, alla fine, le conseguenze politiche?

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