Il 18 aprile del 2019 Jane Manchun Wong lancia per prima la notizia su Twitter: “Instagram sta testando di nascondere il conteggio dei like sotto i post”. A fine aprile arriva la conferma ufficiale di un portavoce di Instagram, il quale comunica alla rivista americana Tech Crunch che il test è attivo solo in Canada. A luglio il test viene esteso a Irlanda, Italia, Giappone, Brasile, Australia e Nuova Zelanda.

Il 2 settembre del 2019 la stessa Jane Manchum Wong lancia di nuovo la bomba in anteprima mondiale: “Anche Facebook sta lavorando per nascondere il conteggio dei like”. Un portavoce di Facebook conferma sempre a Tech Crunch che la notizia è fondata, e che il colosso di Menlo Park sta effettivamente considerando di seguire le orme di Instagram.

Per chi non avesse dimestichezza con questa faccenda è bene fare un passo indietro e chiarire le ragioni alla base della scelta di Facebook e Instagram. Nel mondo, ma in particolare negli Stati Uniti, le piattaforme social hanno iniziato a rilevare che il conteggio dei like riesce talvolta a generare un impatto negativo sull’autostima degli utenti, in particolare quelli più giovani.

La tesi di Mark Zuckerberg e soci suggerisce che pubblicare un contenuto su queste piattaforme senza ricevere l’approvazione della propria rete di contatti può minare alla base la confidenza che una persona ha di se stessa. Questo fenomeno, applicato ai teenager e relativo ai suoi casi più estremi, può arrivare a causare persino l’insorgenza di stati depressivi.

L’adolescenza è una fase della vita molto delicata perché la persona sta ancora formando la propria identità, e nel farlo cerca di attingere a tutti gli elementi sociali presenti nel suo ambiente. Da un lato ci sono i genitori, spesso percepiti come distanti e incapaci di comunicare la stessa lingua. Dall’altro ci sono i pari, ovvero i compagni di scuola, di sport o di quartiere che per semplice prossimità anagrafica vengono messi su un piedistallo e di cui spesso si teme il giudizio.

Internet ha esteso il concetto dei “pari” a una platea potenzialmente infinita di persone. Sul digitale, e in particolare sui social media, risulta abbattuta qualunque barriera geografica e l’adolescente viene esposto al giudizio costante del pubblico per quello che fa, quello che pensa, e i contenuti che produce. Questo giudizio nell’era digitale viene misurato in mi piace, appunto like, simbolici segni di approvazione che decretano il successo o l’insuccesso di un testo, un’immagine o un video.

I teenager, che rappresentano la fascia di utenti più compulsiva, hanno imparato a leggere in modo maniacale il successo dei propri contenuti senza saperlo hanno sviluppato competenze di analisi dei dati, potenzialmente preziose per il futuro. Il tema è che stanno utilizzando queste competenze contro se stessi. Se infatti dopo poche ore – o addirittura pochi minuti – molti adolescenti fiutano che il proprio contenuto non sta ricevendo un numero soddisfacente di interazioni, eliminano lo stesso contenuto per non incappare in quella che, per loro, rappresenta fonte di pubblica umiliazione.

A questo punto ci si potrebbe illudere che la soluzione adottata da Facebook e Instagram rappresenti una reazione ragionevole e pertinente a questo fenomeno. Cioè potrebbe sembrare che i social network gestiti da Mark Zuckberg abbiano saputo interpretare lo zeitgeist, lo spirito del tempo, e abbiano trovano un rimedio tecnologico a un fenomeno umano come l’ansia da approvazione sociale dei giovani utenti.

Il tema è che questa soluzione in realtà risolve la questione di fondo, bensì la oscura, come polvere sotto il tappeto. Leggendo la questione da un punto di vista più ampio sembra che Facebook e Instagram si stiano sostituendo al ruolo dei genitori. In un mondo frenetico come quello moderno, in cui troppi genitori non hanno l’interesse a conoscere e comprendere il mondo digitale dei propri figli, sono i grandi imperatori del web a guidare le problematiche emotive degli adolescenti.

Come suggerisce il celebre psicologo americano Jordan Peterson, il problema della modernità è che anziché irrobustire le nuove generazioni stiamo facendo di tutto per addolcire il mondo – contribuendo a indebolire ulteriormente i più giovani, che crescono in un ambiente ovattato che, guarda caso, non corrisponde al mondo reale. Tanto offline quanto online.

Dovremmo avere genitori consapevoli che curiosano in modo equilibrato e intelligente nei comportamenti digitali dei propri figli, e gli insegnano a dare il giusto peso a questi fenomeni digitali. Invece abbiamo imprenditori digitali che per non rovinare la reputazione dei propri brand assemblano un mondo irreale a uso e consumo dei loro clienti più giovani in cui di fatto viene eliminato il giudizio, e conta solo il contenuto.

Si tratta di un modo distorto di insegnare ai teenager come affrontare le proprie emozioni, come interagire coi pari e dunque come consolidare la propria identità. Si tratta di una soluzione puramente tecnica a un problema ben più profondo che non può avere la pretesa di essere esaurita semplicemente cambiando il design di alcune applicazioni.

Non dimentichiamoci che l’esperienza digitale è la fedele fotografia di quella fisica: nella vita esistono infatti cose belle e cose brutte. Rimuovere il conteggio dei like dai social per paura di ferire l’ego degli adolescenti significa insegnargli che nella vita esistono solo gli applausi, e mai i fischi. Significa, soprattutto, alimentare in modo distorto la loro autostima e predestinarli all’infelicità. Perché un giorno scopriranno che il mondo è un posto molto più difficile di quello che gli hanno raccontato Facebook e Instagram. E allora potrebbe essere troppo tardi.

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