L’avvocato Giuseppe Conte è certamente una persona a posto: lo ha dimostrato nel suo pur breve periodo di guida al vertice della sperimentale coalizione M5S-Lega, quando sono riusciti a portare a compimento importanti riforme molto bene accolte dal popolo italiano. Coalizione che però gli avversari politici del governo (Pd, Fi, FdI) accusavano costantemente di populismo sfacciato.

Populismo? In un certo senso sì, ma nel senso buono della parola – non in quello biasimevole, continuamente fatto girare da certi media ad intendere qualcosa di negativo per il comune cittadino. Che è peraltro un’accusa molto discutibile: perché se è vero che il populismo dà risultati immediati favorevoli al comune cittadino, ma successivamente rimangono i conti da pagare, è ancor più vero che le recenti politiche di austerity e/o di rottamazione perseguite da precedenti governi hanno dato risultati immediati persino peggiori senza nemmeno lasciare la speranza di un futuro migliore.

L’operato del governo gialloverde nel solo primo anno di lavoro ha infatti registrato buoni risultati, confortati anche da un sostanziale alto gradimento da parte dei cittadini. Solo certi media si son fatti scrupolo di spaccare il capello in due per trovare difetti francamente poco rilevanti a lato pratico. Il bisticcio avviato dalla Lega sul suo “diritto” di coalizione di veder realizzato anche il suo progetto di riduzione fiscale infatti non è mai stato negato dai 5 stelle, ma solo rinviato per “cause di forza maggiore”, ovvero l’esaurimento dei fondi disponibili (cosa che accade però abbastanza spesso in chi fa conto sui fondi elargiti dallo Stato, chiedetelo agli imprenditori).

Quindi, benché sia comprensibile il malumore dei “verdi” di Matteo Salvini, farne colpa ai “gialli” di Luigi Di Maio è apparsa subito un’azione spericolata e senza senso pratico. Salvini ha avuto fretta nel cercare di consolidare il consenso mediatico ottenuto dal popolo (sulle politiche anti-immigrazione), ha voluto andare all’incasso ed è finito nel fosso.

Salvini sperava che la caduta del governo fosse seguita da elezioni anticipate. Non è andata così. Matteo Renzi, che tutti pensavano pensionato in uno scranno del Senato, ha invece “ventilato” la possibilità di un accordo col M5S (che lui stesso aveva rifiutato al tempo del primo tentativo post elezioni) e quel “venticello” ha risvegliato i suoi eletti (non i suoi elettori, i suoi eletti!) fino a convincerli che l’accordo col M5S ora era possibile.

Qui comincia la parte più riprovevole di tutto il resto della faccenda, che ha visto di passo in passo prima il segretario del Pd (Nicola Zingaretti) scavalcato dal suo predecessore (Renzi), poi il capo del M5S (Di Maio) scavalcato da Beppe Grillo e da Davide Casaleggio (estranei all’organigramma del Movimento, anche se soci fondatori) ma tutti riuniti d’urgenza a discutere sull’“opportunità” di proseguire nella nuova alleanza proposta da Renzi.

Gli elettori non li ha sentiti nessuno.

Se tutto questo avesse avuto in Di Maio o in Zingaretti, capi dei loro rispettivi partiti, i naturali candidati alla poltrona di capo del governo, l’idea diabolica di Renzi poteva anche passare come normale atto politico. Ma a Di Maio è stata negata persino la poltrona di vice che aveva prima, e Zingaretti, per evitare di fare la stessa fine, nemmeno ha provato a chiederla. Stoicismo? O paura di vedersi scavalcare da pretendenti più quotati?

Vedendo che Zinga è da tempo segretario del Pd, ma non ha ancora rinunciato alla poltrona di presidente della Regione Lazio e che Di Maio, collezionista di poltrone nel precedente governo, aspetta ansioso di vedere confermata almeno qualcuna delle sue richieste (“poltronofilia” è il termine usato da Grillo), sembrerebbe più probabile la seconda ipotesi.

Rimane da vedere nel merito la candidatura di Conte a presidente del Consiglio, non più in veste di semplice mediatore tra i suoi due vice – reali esponenti dei loro partiti votati dal popolo – ma ora autonomo Primo ministro rappresentante del suo autorevole se stesso. Cioè comanda lui senza rappresentare nessuno? Non è nemmeno un governo del “presidente”, visto che Zingaretti insiste sul fatto che Conte rappresenti il M5S; ma non si è ancora sentito Di Maio avallare questa dichiarazione.

Il Parlamento può legittimamente dare la fiducia a un premier che rappresenta solo se stesso? E se fosse Renzi invece a governare realmente da dietro le quinte un governo di colore indefinibile? Lui ne sarebbe certamente capace, ma non lo avevamo già visto all’opera e mandato a casa?

Siamo sicuri che questo pastrocchio sia ancora definibile “democrazia parlamentare”?

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