Si è riaccesa con prepotenza la questione relativa ai migranti, con quello che è ormai uno scontro di visione politica e ideale, non italiana, ma internazionale. Scontro legittimo e inevitabile, visto il radicamento delle posizioni, ma comunque costruito intorno a un assunto: “devono entrare e rimanere solo i migranti che ne hanno diritto”. Il concetto ha dei contorni dati per scontati. Ha diritto chi viene da Paesi dai quali è lecito fuggire per guerre in atto, persecuzioni, violazioni di diritti civili palesi e gravi. Per gli altri la prospettiva è il rimpatrio.

Ma chi sono gli altri? A parte i casi di persone compromesse nel loro paese per motivi di illegalità e criminalità, per la maggior parte si tratta dei cosiddetti “migranti economici”, cioè coloro che in varie forme e condizioni scappano dalla povertà con l’intenzione di un riscatto sociale.

Non vuole essere questo il luogo per rispondere a domande sui modi scelti (o subiti) da queste persone per lasciare il Paese di origine: val la pena solo ricordare che per entrare in Italia con un visto turistico e poi sperare di trattenersi legalmente sono necessarie autorizzazioni e garanzie che non è così facile ottenere. Tanto più che spesso si tratta di nazioni dove mancano perfino le minime strutture istituzionali, come un banalissimo servizio di anagrafe. Figuriamoci quanto sia difficile poter emigrare regolarmente e quanto sia invece facile affidarsi a trafficanti che – senza alcuna burocrazia – organizzano il viaggio, pagati – magari – con il risultato di una colletta tra parenti e amici.

La questione vera è quella del motivo che spinge a emigrare. Certo, possiamo finché vogliamo continuare a considerare il fenomeno della migrazione economica come estraneo a doveri di accoglienza; ufficialmente è diritto di qualsiasi stato organizzato. Quel che gioca a sfavore è la storia, che insegna che è proprio il movente economico ad essere stato motore di esodi di intere popolazioni.

Anche noi italiani ne sappiamo qualcosa. Come sarebbe andata se ai nostri migranti fosse stato opposto il non essere profughi o perseguitati? Questo per comprendere che le migrazioni economiche sono un evento inevitabile, davanti al quale vanno prese decisioni serie e utili, al di là di ogni pregiudizio politico. Pena, il rischio di ritrovarsi a dover affrontare future migrazioni di massa “vere” e il disagio – magari rabbioso – di chi vedesse preclusa ogni possibilità di riscatto.

Per capire bene cose abbiamo davanti, è indispensabile affidarsi ai numeri certi: le stime di reddito medio pro capite nei vari paesi del continente nero, corrette rapportandole al potere di acquisto sul posto. Tenendo a parametro il dato italiano, di 38mila dollari annui. A parte la “ricca” Guinea Equatoriale che con 35mila dollari di reddito pro capite è di 3mila unità sotto l’Italia, tutte le altre nazioni africane sono molto dietro di noi. Tralasciamo pure le Seychelles e le Mauritius – noti paradisi turistici – che comunque sono decisamente distanti, e la classifica vede al quarto posto il Gabon con metà del nostro reddito pro capite.

Il confronto con i Paesi del Mediterraneo poi – cioè quelli ai quali ci rapportiamo nella quotidiana polemica sui cosiddetti “porti sicuri” ai quali vorremmo che i migranti facessero ritorno – parla chiaro: rispetto a loro siamo un paese ricco, anzi ricchissimo. La Libia, nei cui giacimenti di petrolio affondiamo le trivelle insieme alla Francia (noi a nord , i cugini d’Oltralpe a sud), fa segnare un reddito pro capite di poco meno di 9800 dollari all’anno, cioè circa un quarto di quello italiano. La Tunisia, i cui villaggi turistici sono considerati da tanti utenti dei social sintomo di evidente benessere, si ferma a un terzo, con meno di 12mila dollari.

Tornando alle nazioni più note, in Kenya evidentemente non bastano le strutture per ricchi turisti di Malindi a dare agli abitanti un reddito dignitoso, visto che ammonta a poco più di 8mila dollari all’anno. Una delle nazionalità più presenti nei “carichi umani” che attraversano il Mediterraneo per dirigersi verso le nostre coste è quella dell’Eritrea: in quel Paese il reddito medio annuo è di 1400 dollari, cioè meno di quello di un cittadino italiano medio ogni due settimane. Ma – si dirà – i dati statistici non considerano che vi sono regioni d’Italia decisamente in difficoltà: certo, il dato più preoccupante è quello della Calabria, con circa 19mila dollari pro capite, ccomunque più alto di quello di 50 stati africani su 53.

Se fosse necessario un parametro diverso, potremmo considerare lo sfruttamento dei lavoratori africani nelle nostra campagne. “Vengono per poi stare peggio che a casa loro” è una delle considerazione più diffuse tra chi sostiene che per i migranti non vi siano opportunità. Bene, ponendo una paga di 20 euro al giorno per 350 giorni in un anno, si ottengono 7mila euro, cioè 7900 dollari. Superiore a quello medio in ben 40 stati africani. Insomma, una condizione che a noi appare spaventosamente disagiata, ma che è migliore di quella che quasi tutti quei migranti si lasciano alle spalle.

Questo certo non significa che l’Italia debba farsi carico delle migrazioni, ma vuol dire che la nostra è la frontiera di un’Europa immensamente più ricca di tutto il continente nero, del quale sfrutta risorse importanti lasciando evidentemente sul campo ben poco. Una condizione che – forse – è il caso di affrontare in fretta e bene. Prima che diventi un debito (difficile) da saldare, senza potersi affidare alla chiusura dei porti.

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