Tutti presi dal dimostrarsi esperti appassionati di calcio femminile dimenticando di dare una notizia: “Bocciato l’emendamento per il riconoscimento del professionismo”. E’ accaduto nello stesso giorno in cui le atlete allenate da Milena Bertolini hanno battuto le colleghe della nazionale giamaicana con una cinquina di reti. Tutto è successo in Commissione Cultura dove è stato stoppato il documento alla legge delega sullo sport (91/1981) che avrebbe permesso di equiparare il livello professionistico delle calciatrici ai colleghi maschi. La solita ipocrisia: belle parole, zero atti concreti.

Sarà pure che i firmatari del Pd (Rossi, Lotti, Boschi e Ascani) lo abbiano potuto fare per cavalcare il successo della azzurre ai Mondiali di Francia (quale politico non lo fa?) ma il dato di fatto è che l’attuale maggioranza politica ha deciso di lasciare queste sportive nella categoria dilettanti. Giusto. In fondo sono solo donne. Hanno un gioco meno “macho”, fanno magari troppi errori tecnici. Oltre tutto hanno scelto di indossare calzoncini per niente “shorts” e maglie un po’ troppo larghe. La verità è che quando si toccano in soldi, in Italia la musica cambia. O forse è sempre la stessa. Dipende dai punti di vista.

Una costante per ogni settore lavorativo. Se parliamo di calciatrici è invece interessante la storia di Elisa Zizioli ex capitana del Brescia, nella stagione della promozione, perché obbligata a scegliere tra giocare a calcio o continuare con il suo lavoro. Le calciatrici italiane non percepiscono uno stipendio vero e proprio, con un tetto salariale di circa 30mila euro che non può essere sforato: con le modifiche apportate dalla Figc si possono sommare indennità di trasferta, rimborsi spese forfettari e voci premiali per un massimo di 61,97 euro al giorno per 5 giorni alla settimana in accordo con la società di appartenenza. Nel caso della serie cadetta le ragazze giocano spesso gratis e, quando sono fortunate, arrivano a ricevere un rimborso spese che non supera mai i 500 euro mensili. In Europa le cose vanno diversamente: Ada Hegerberg dell’Olympique Lione guadagna 400mila euro all’anno.

Le calciatrici italiane vivono di “gettoni” inoltre non hanno alcun diritto come lavoratrici. Sono in un limbo in cui non è garantito un salario minimo, non maturano una pensione e non hanno una tutela sanitaria. Sportive non considerate professioniste, tanto meno lavoratrici. Solo dilettanti. Tirare calci al pallone per le donne è “puro diletto”.

Era già stato ampiamente spiegato che proprio alla luce della legge 91/1981 il rischio attualmente è addirittura la disparità costituzionale per diritti garantiti da una Legge che tutela in modo diverso gli uomini dalle donne. Non è una novità. Se si parla di indice sui redditi annui medi il gap salariale delle lavoratrici italiane è pari al 43,7% contro la media europea del 39,6%. Selvaggia Lucarelli ieri ha sintetizzato: “Le donne hanno espugnato un fortino maschile. Gli uomini temono che le donne invadano il loro territorio. Beh, ormai è successo”. Territorio o no le donne vanno sempre tenute a bada. Meglio se a cuccia. Gli uomini fanno squadra. Le donne che potrebbero decidere, spesso per essere accettate dai colleghi – numericamente sempre maggiori-, preferiscono accodarsi alle decisioni per non passare come solite “incallite femministe” o quelle che “difendono le donne”.

Quindi donne: “Palla lunga e pedalare”. Meglio se a testa bassa.

e.reguitti@ilfattoquotidiano.it

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