La tratta dei migranti bengalesi e l’Italia connection: dalla Libia, via mare, fino alle nostre coste. ‘Pacchetti di viaggio’, da origine a destinazione, una gestione familiare con interessi nel Belpaese dietro il malaffare della tratta di esseri umani. Con qualche intoppo di troppo però: “Abbiamo pagato 6mila dollari per arrivare da Dakka (la capitale del Bangladesh, ndr) fino a Tripoli, per poi essere ceduti ai trafficanti che ci avrebbero fatto arrivare in Italia, per altri 2mila dollari. Ci hanno ingannato e ci hanno lasciato a morire in mezzo al mare. A chi abbiamo dato i soldi? A tre fratelli, nostri connazionali: uno è di base a Istanbul, l’altro opera a Tripoli, ma il capo, Roman, tutti lo chiamano Goodluck, sta in Italia. E’ lui a comandare e a decidere le sorti dei migranti bengalesi”.

Sijur Ahmed è miracolosamente sopravvissuto al naufragio dell’imbarcazione partita un mese fa dal porto libico di Zuwara, poche decine di chilometri dal confine tunisino. Finito alla deriva e abbandonato dagli scafisti, il natante che trasportava circa 80 persone è colato a picco. Almeno 60 le vittime, mentre in 16 sono stati successivamente salvati grazie ad un peschereccio della marineria tunisina che li ha tratti in salvo. Era il 10 maggio scorso. Tra i 16, appunto, anche Ahmed Sijur, altri sei connazionali, un marocchino, due egiziani, un paio di nigeriani e i restanti da Etiopia ed Eritrea.

Dall’inferno della Libia all’accoglienza della Tunisia la strada spesso è obbligata più che scelta. Per le centinaia di migliaia di migranti che in questi ultimi anni sono transitati dal Nord Africa verso l’Italia, la Tunisia non ha mai rappresentato un punto di arrivo, un’opzione alternativa al viaggio. Spesso, tuttavia, proprio l’ex colonia francese è finita col diventare la terra d’approdo necessaria, sia per chi ha deciso di fuggire dalle violenze subite per mano delle milizie libiche, sia per chi è riuscito a sopravvivere ai naufragi nel canale di Sicilia. Sijur, appunto.

Lo abbiamo incontrato nel centro di accoglienza della Mezzaluna Rossa alla periferia di Zarzis, governatorato di Medenine, città portuale a pochi chilometri dal varco di confine di Ras Agedir. Il suo racconto parte da lontano, dall’ottobre del 2018 e rivela un fronte migratorio diverso dai canali che siamo abituati a raccogliere dalle testimonianze della maggior parte dei profughi e richiedenti asilo: “L’organizzazione mi ha fatto arrivare in aereo dal Bangladesh fino ad Istanbul dove ho conosciuto uno dei tre fratelli a cui ho consegnato parte dei soldi. Tempo pochi giorni e sono salito su un altro aereo, destinazione Tripoli. I documenti, nessun problema, ci hanno pensato loro. Una volta nella capitale libica le cose sono cambiate e gli accordi presi in precedenza sono saltati”.

Fa caldo dentro il centro di accoglienza, praticamente in mezzo al deserto, isolato dal resto della città, lontano due chilometri dalla strada che collega Zarzis a Ben Gardane. Cucina e sala da pranzo e un ampio dormitorio con materassi di gommapiuma, alcune brande di legno e prese per caricare i cellulari, fondamentali. Ai 16 salvati dai flutti a maggio, nel corso delle ultime settimane si sono aggiunti un centinaio di migranti di varie nazionalità recuperati in mezzo al deserto, al sud della Tunisia, dove i confini di Tunisia, Libia e Algeria formano una specie di tetris.

Il bengalese miracolato racconta la sua personale odissea: “Un giorno io ed altri connazionali siamo stati affidati a dei soggetti che ci hanno caricato a forza sui camion e condotto a Zuwara, dove siamo stati chiusi per giorni, settimane, dentro una casa. Due stanzette, dentro 82 persone, strette come sardine. La prima cosa che ci hanno fatto è stata prenderci i telefoni. Non li abbiamo più visti. Il tempo passava, ci davano da mangiare una ciotola di riso al giorno, ci picchiavano. Volevo morire, eravamo disperati. Poi una notte ci hanno messo sopra una barca e siamo partiti”.

“Negli accordi, alla partenza dal Bangladesh, tutto questo non era previsto – continua – Nessuna detenzione, nessuna violenza e il viaggio verso l’Italia a bordo di una nave comoda. Avessi saputo di questo inferno e di come sarei finito, non avrei mai accettato. Tornando a quell’incubo, dopo ore di navigazione, ci hanno spostati da una barca ad una seconda e qui abbandonati a noi stessi, con gli scafisti che sono tornati indietro. Col passare delle ore, in balìa delle onde, abbiamo iniziato a imbarcare acqua, poi il naufragio. Ho visto decine di persone scomparire sott’acqua, ero sicuro di morire, quando è arrivata la barca dei pescatori che ci ha salvato. L’obiettivo era l’Italia, io vado avanti, non mi fermo qui”.

Salvataggi in mare, rischiosi per i motopesca italiani e per qualsiasi altro tipo di natante in giro in acque nazionali. Il comma del Decreto Sicurezza che prevedeva sanzioni a chi aiutava migranti in mare, per ora, pare congelato: “Non si dovrebbe neppure discutere una legge del genere. Le regole del mare, i codici della navigazione parlano chiaro e mettono, in testa a tutto, l’obbligo di salvare chi è in difficoltà. Al di là di questo, io sono una persona, ho un cuore e non ci penserei due volte a rischiare la vita per un essere umano. Il vostro Ministro degli Interni vuole multare chi, come me, ha salvato vite, siamo alla follia. Purtroppo io a causa della vostra arroganza ci ho rimesso in dignità e in soldi, ma se dovesse ricapitare mi comporterei nello stesso modo. E infatti mi è ricapitato, altre volte, l’ultima il 1 maggio scorso, quando ho riportato a terra 64 naufraghi”.

Chamseddine Bourassine il 31 agosto 2018 è stato fermato da una nostra motovedetta della Capitaneria di porto in acque internazionali e costretto a seguire i militari fino a Porto Empedocle. Lui e i cinque membri d’equipaggio del peschereccio ‘Bourassine‘ sono stati arrestati con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione e tenuti in carcere per quasi un mese. Motivo dell’arresto? Avevano appena tirato a bordo 29 migranti che stavano annegando, con il loro natante ormai al collasso: “Un’accusa infamante e che non accetto” attacca Bourassine, seduto davanti alla sede dell’Associazione dei pescatori di Zarzis, tra 400 e 500 iscritti, di cui è stato presidente e oggi è vice.

E’ appena rientrato in porto dopo quattro giorni di pesca. Il grosso degli armatori approfittano del periodo di pessime condizioni meteomarine e della fine del Ramadan per svolgere dei lavori di restauro a bordo delle loro barche: “Mi è costato molto quel provvedimento _ aggiunge Bourassine, calmo e posato _. I giorni in prigione significano mancata pesca, mancato lavoro e danno economico. Una volta usciti di prigione hanno trattenuto la mia barca, recuperata in un secondo momento da mio fratello, e sono pure stato multato. Un avvocato italiano si sta occupando della vicenda, l’Italia dovrà risarcirmi, economicamente e moralmente per quanto accaduto. Ah, infine non dimentico l’aggressività dei militari italiani, molto pesante”.

Salvare chi è in difficoltà: un codice d’onore: “Lasciar morire i migranti in mare? I nostri pescatori non lo consentiranno mai – replica infastidita Emna Sohlobji, consulente giuridica esperta in Diritto del Mare – La marina italiana non aveva diritto di intervenire quel giorno con la ‘Bourassine‘ che navigava a 23 miglia da Lampedusa. I nostri pescatori rischiano arresti, sanzioni e pure di essere obiettivo di sparatorie da parte delle motovedette libiche e pure dei ‘pirati’, come accade in Somalia. Dobbiamo tutelare gli interessi degli associati, per questo sta partendo un rigetto di collaborazione e formazione con Msf legato alla pesca e al salvataggio dei migranti”. A tal proposito, venerdì l’equipaggio della Maridive 601 è arrivato davanti al porto di Zarzis ed è rimasto in attesa del via libera per entrare nello scalo. Il suo carico? 75 migranti salvati in mare, in maggioranza bengalesi.

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