di Monica Rota*

E’ legittima la comunicazione di un licenziamento trasmessa via Whatsapp? Può essere utilizzata in giudizio la messaggistica Whatsapp per incardinare un procedimento disciplinare? Posso produrre in giudizio i messaggi trasmessi dal mio datore di lavoro ove emergono chiaramente direttive e orari in un rapporto di lavoro non regolarizzato? Nei nostri studi, sempre più frequentemente, i lavoratori sollevano questioni come quelle poc’anzi citate e le risposte fornite nelle aule dei Tribunali non sono sempre univoche.

Dalla nota sentenza riguardante un licenziamento intimato tramite Whatsapp, in cui il Tribunale di Catania ha stabilito che tale modalità è idonea ad assolvere l’onere della forma scritta, come stabilito dall’art. 2 della L. n. 604/66, è scaturito un vivace dibattito in ordine ai riflessi giuridici che tali nuovi strumenti di comunicazione pongono nel rapporto di lavoro.

Il legislatore ha sancito che il documento informatico soddisfa il requisito della forma scritta e ha l’efficacia dell’art. 2702 c.c. quando vi è apposta una firma digitale, altro tipo di firma elettronica qualificata o una firma elettronica avanzata; in tutti gli altri casi, “l’idoneità del documento informatico a soddisfare il requisito della forma scritta e il suo valore probatorio sono liberamente valutabili in giudizio, in relazione alla caratteristiche di sicurezza, integrità e immodificabilità” (art. 20 comma 1 D.Lgs. n. 82/05, modificato dall’art. 20 del D. Lgs. n. 217/2017).

Un primo problema si pone in quanto la messaggistica Whatsapp non assolve in alcun modo alle prescrizioni normative in ordine alla individuazione del soggetto che intima il licenziamento, proprio in quanto comunicazione priva di sottoscrizione.

Il secondo problema concerne la decorrenza dei termini di impugnazione. Il licenziamento infatti deve essere impugnato entro i 60 giorni dalla ricezione della comunicazione scritta. Tuttavia non vi è alcuna certezza sulla decorrenza stessa: la lettura di un messaggio potrebbe infatti avvenire anche dopo diversi giorni o verificarsi qualunque altro evento che ne impedisca l’immediata e certa lettura da parte del destinatario.

La giurisprudenza, senza un particolare approfondimento, ha tuttavia affermato che trattasi di “un documento scritto e il suo invio può essere più efficiente di una raccomandata a/r perché la ‘doppia spunta’ grigia e blu dà informazioni immediate su data e ora di consegna e lettura” (cfr. Tribunale di Roma, sentenza del 30 ottobre 2017 n. 8802), richiamando anche il principio espresso dalla Corte di Cassazione nel lontano 2007, quando ancora non era diffusa la cosiddetta messaggistica social, secondo cui “la volontà di licenziare può essere comunicata al lavoratore anche in forma indiretta purché chiara”.

Oltre ai pregnanti aspetti giuridici sopra esposti, si pongono delle considerazioni di etica aziendale, in quanto l’informalità e rapidità di tali mezzi mal si coniugano con il contenuto di una comunicazione di licenziamento, che deve essere trasmessa con il massimo rispetto della dignità e sensibilità di chi la riceve, anche per le ricadute sul piano personale, familiare e sociale che tale evento provoca nella vita di un lavoratore.

Un altro tema che assume sempre maggiore rilevanza è l’utilizzo di comunicazioni tra colleghi nelle chat di gruppo o attraverso post su profili Facebook, utilizzate dai datori di lavoro per incardinare un procedimento disciplinare e irrogare un licenziamento per giusta causa.

Il Tribunale di Milano ha ritenuto illegittimo il licenziamento di un sindacalista che aveva formulato espressioni denigratorie nei confronti del gruppo dirigenziale in un post pubblicato su Facebook, invocando il diritto alla riservatezza della conversazione tra i partecipanti di un gruppo (sentenza Tribunale di Milano del 29.11.17).

Il Tribunale di Parma, con sentenza del 13.11.18, seguendo il solco tracciato dalla Cassazione in tema di diffamazioni all’interno di chat riservate (cfr. ordinanza Corte Cassazione 10.09.18 n. 21965), ha ritenuto che tali conversazioni private e costituzionalmente tutelate rientrano nel legittimo diritto di critica, sancito dall’art. 21 della Costituzione. Il giudice ha poi osservato che “dalla lettura delle conversazioni suddette, intervallate da emoticon di vario genere e da battute di tipo umoristico, non è facile comprendere se alcune frasi vengano dette seriamente o enfatizzate proprio in ragione del contesto deformalizzato e amicale della conversazione”, e dichiarato pertanto illegittimo il licenziamento.

Sul valore delle emoticon, il Tribunale di Roma ha ritenuto insussistente la condotta vessatoria di un datore di lavoro in quanto le comunicazioni Whatsapp erano “espressione di un rapporto di familiarità e cortesia, frequentemente corredati di emoticon affettuose” (sentenza del 12.03.18). Sempre sul valore delle emoticon, il Tribunale di Parma ha considerato illegittimo il licenziamento di una dipendente, perché i commenti negativi sul conto del datore erano intervallati appunto da emoticon che rendevano gli insulti “più canzonatori che offensivi” (Tribunale di Parma, sentenza 7 gennaio 2019).

In un altro caso di licenziamento la Corte d’Appello di Roma ha ritenuto che sia per i termini utilizzati dal lavoratore sia per le caratteristiche del veicolo informativo (definito “mezzo altamente diffusivo”), fosse configurabile l’ipotesi di reato di diffamazione, dichiarando tuttavia la condotta ascrivibile a un illecito previsto dal contratto collettivo che prevedeva una sanzione conservativa e non espulsiva.

Il Tribunale di Milano, sempre in caso di licenziamento, ha invece ritenuto inutilizzabile la documentazione prodotta in giudizio da una società avente a oggetto conversazioni di una dipendente con alcune colleghe su programmi di messaggistica istantanea (Whatsapp e Hangout), in cui screditava l’immagine dei superiori gerarchici. In questo caso il giudice – in ragione del mancato assolvimento dell’onere probatorio e in assenza dei supporti informatici contenenti le conversazioni – ha dichiarato illegittimo il licenziamento e disposto la reintegra della dipendente (sentenza Trib. di Milano del 24.10.17). In altri casi ancora il giudice ha disposto la consulenza tecnica d’ufficio in relazione alle produzioni in giudizio di comunicazioni inviate tramite messaggistica istantanea.

Il Tribunale di Firenze, in un caso di licenziamento disciplinare di un medico che aveva intrattenuto rapporti extraprofessionali con una paziente, ha disposto una consulenza tecnica, in quanto il dipendente aveva contestato il documento contenente le conversazioni di messaggistica istantanea. Tuttavia neppure una perizia informatica ha illuminato il Tribunale circa il reale contenuto della conversazione oggetto della contestazione, tanto che il giudice non se ne è avvalso pur confermando il licenziamento per giusta causa.

Infine sul valore probatorio dei messaggi Whatsapp, il Tribunale di Torino ha sancito che “i messaggi inviati tramite Whatsapp, contenenti anche fotografie, possono contribuire a dimostrare l’attività di lavoro subordinato. Si tratta infatti di prove documentali che, insieme alle testimonianze, provano l’attività svolta come dipendente all’interno di una pizzeria” (sentenza del 15 gennaio 2018 n. 55).

Come può intuirsi dal descritto panorama giurisprudenziale, le domande iniziali non possono trovare risposte univoche, considerate le molteplici questioni che l’utilizzo delle nuove tecnologie solleva a livello sociale e giuridico.

* Avvocata giuslavorista, socia AGI (Associazione Giuslavoristi Italiani) e socia Comma2. Vivo e lavoro a Milano. Ho sempre esercitato la professione a favore delle lavoratrici e dei lavoratori, collaboro con la Consigliera Regionale di Parità e con la Consigliera di Parità della Città Metropolitana.

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