di Gianmarco Oro*

1. Con l’avvicinarsi delle Elezioni europee è possibile che alcuni governanti uscenti vengano colti da un qualche presagio e che istintivamente cerchino di scongiurarlo attraverso una decisa rivendicazione dei propri risultati oppure una mite ammissione di colpa: è questo il caso di Jean-Claude Juncker. Con un intervento a Strasburgo, il presidente della Commissione europea ha infatti ammesso l’imprudenza con cui sono state adottate le politiche di austerità del fiscal compact e si è rammaricato della “mancanza di solidarietà nel momento di affrontare la crisi greca”.

Non c’è dubbio che Juncker abbia preso nota dei recenti sondaggi elettorali e che si sia accorto che, oltre alla congiuntura economica e alla fatalità della crisi del debito sovrano, possono essere state proprio quelle politiche a innescare la bomba del sovranismo. Infatti, egli ha precisato che in nessun modo la Commissione voleva “sanzionare chi lavora o chi è disoccupato”, proprio perché sembra avere finalmente riconosciuto le categorie sociali che stanno adesso chiedendo conto della propria condizione economica attraverso il voto politico. In particolare, sono stati i risultati delle ultime elezioni italiane a far materializzare la “controparte” della classe politica europea al governo (Ppe+Pse), ormai distante dagli interessi dei cittadini comuni (i forgotten men che in America hanno votato Donald Trump) e privata di ogni visione ideologica, tanto da arrivare a confondere il suo europeismo con la pura e semplice eurocrazia.

La storia del sovranismo italiano si sviluppa in tre fasi distinte: la prima risale alla situazione che ha preceduto la crisi del debito sovrano del 2011, la seconda è stata la fase dei vari governi tecnici (con supporto dei partiti di centro-destra e di centro-sinistra) nominati all’unico scopo di applicare il Patto di bilancio europeo pur di rientrare “nelle grazie” della Commissione (e dei mercati finanziari), e infine la fase della presa di coscienza (di classe) dei ceti medi. Per ripercorrerle basta osservare alcuni dati macroeconomici.

2. Non è una novità che, dall’adozione della moneta unica, l’Italia non sia riuscita a trarre quei benefici economici che alcuni prospettavano. Questo si deve al fatto che la politica italiana ha cercato per molto tempo di sostenere le esportazioni (una componente rilevante della produzione) ricorrendo alla svalutazione del cambio che, quando conduceva a un processo inflazionistico interno, riusciva anche a contenere il rapporto debito-Pil. In altre parole, la politica comunitaria di contenimento dei prezzi, volta ad assicurare la valorizzazione del capitale dei “paesi produttivi”, ha generato un divario tra questi e i paesi del “Mezzogiorno europeo” e in particolare l’Italia, che ha subito un rallentamento della crescita causato dalla bassa produttività del lavoro e dalle rare opportunità di investimento. La prima fase, pertanto, è stata segnata dalla limitata governabilità dell’economia nazionale all’interno di quei vincoli finalizzati a uniformare i bilanci pubblici dell’Eurozona.

Se l’Italia era già affaticata sul piano finanziario e produttivo, la sua condizione è peggiorata dopo la situazione critica del 2011 che, secondo il pensiero economico egemone, avrebbe potuto risolversi soltanto impartendo a quei paesi indebitati una severa lezione di stabilità finanziaria. Sono seguiti dunque gli anni dell’austerità, ovvero di quelle misure introdotte allo scopo di ridurre il rapporto debito-Pil agendo essenzialmente sul suo numeratore. E mentre lo Stato si defilava da ogni intervento economico, la ricetta prevedeva anche un ulteriore abbassamento del costo del lavoro dipendente (già perseguito peraltro dagli anni Novanta), nella promessa di una crescita degli investimenti privati ed esteri. Tuttavia, tale orientamento politico ha prodotto dei risultati ben diversi.

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*Cultore della materia in Storia del Pensiero economico – Università di Macerata

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