Sono di ritorno dalla partecipazione in giuria alla finale del Premio Fabrizio De André 2019, svoltosi sabato 6 aprile all’Auditorium Parco della Musica di Roma. È stata la 17esima edizione. Si sono alternati sul palco dodici finalisti venuti da tutta Italia, con la direzione artistica di Luisa Melis e una giuria presieduta da Dori Ghezzi, per l’organizzazione di iCompany di Massimo Bonelli. Sono stati inoltre premiati, in nome del cantautore genovese, Francesco Motta ed Enzo Avitabile. La manifestazione – dedicata a quello che si può ben considerare, assieme forse solo a Francesco Guccini, il più importante cantautore italiano – non ha affatto deluso le attese, perché il livello dei concorrenti era molto alto.

Si vede che c’è il buon gusto di Luisa Melis dietro alle scelte artistiche del Premio De André. Chi vi scrive gira un bel po’ l’Italia come giurato nei vari premi di canzone di qualità, e si capisce subito quando la preoccupazione principale degli organizzatori è quella di mantenere alto il livello artistico dei partecipanti. Per il De André, la supervisione di Dori Ghezzi è ovviamente di per sé una garanzia, ma poi bisogna anche saper assortire l’offerta musical-letteraria, soprattutto quando il tutto è fatto in nome di un gigante, uno che non si è solo limitato a scrivere e cantarsi le canzoni, ma che è anche riuscito a incidere sulla realtà che ci circonda in maniera positiva.

De André, come gli artisti più grandi di ogni tempo, il mondo non lo ha solo descritto, lo ha anche – in parte – cambiato; nella fattispecie, lo ha reso migliore. I suoi brani non sono solo strumentalizzati da politici come Matteo Salvini – per inciso: o è in malafede o ci ha capito poco, tertium non datur -, ma stanno anche dietro alle parole e all’atteggiamento meraviglioso e coraggioso del 15enne Simone di Torre Maura, che non è d’accordo con un gruppetto di gentaglia fascista e senza abbassare lo sguardo glielo dice in faccia, parlando di minoranza e maggioranza. Forse Simone non conosce De André, di certo però le sue parole si abbeverano della forza culturale con cui i versi di Faber hanno plasmato il mondo in cui sta crescendo, da cittadino responsabile.

Insomma, per un premio così la responsabilità è enorme, e la 17esima edizione è stata ampiamente all’altezza. Si sono distinti in particolare Apice, il vincitore, Franz, Francesco Guarino, Giulia Ventisette e Giulia Pratelli. Il primo si è aggiudicato il concorso con il brano Beltempo, una canzone delicata ma anche potente, un equilibrio quasi impossibile, permesso da un ritmo convincente, una buona narratività e un arrangiamento sobrio, con sole chitarra classica ed elettrica e una felice pulizia di suono. Franz invece ha proposto un set classico, con lui al piano, fiati e archi che per il brano Settembre hanno raccontato in canzone Il deserto dei tartari di Dino Buzzati; Franz è un compositore, musicista totale che riesce a rendere cinematografico lo sviluppo musicale del brano, che mai però prevarica le parole o ne è prevaricato. Andatevelo a cercare, ne vale la pena.

Bisogna poi spendere qualche parola anche per Francesco Guarino, sardo trapiantato a Bologna che con la canzone Tra il falso e il vero è riuscito a parlare in maniera intelligente e pungente dell’ondata populista che caratterizza il nostro tempo. Convincenti anche Giulia Ventisette e Giulia Pratelli, che con due brani agli antipodi si sono distinte per ottima scrittura: la prima con la canzone Tutti zitti, canto di protesta sociale e dalle ottime soluzioni testuali; la seconda con Non ti preoccupare, intima dedica ai propri genitori.

Chiudo con il sontuoso set di Enzo Avitabile. L’artista partenopeo ha sempre un fascino speciale, tiene il palco come pochissimi altri e riesce a esprimere l’urgenza delle contaminazioni positive della musica del mondo. Chiude con una perla, l’adattamento napoletano de La guerra di Piero. Spero davvero che venga incisa, perché non è una semplice traduzione ma, come ha detto bene Dori Ghezzi sul palco premiando Avitabile, è una versione riletta in un’altra cultura, che “lo stesso Fabrizio avrebbe voluto e scritto così”.

Foto di Alberto Marchetti
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