di Andrea D’Auria

Già da prima di partire per le Galapagos avevo cominciato a pensare a quale sarebbe potuta essere la foto perfetta da pubblicare, quale più di tutte avrebbe solleticato quella parte malata di noi che tutti abbiamo nel voler spasmodicamente raccogliere approvazione sociale sotto forma di “mi piace” – per non parlare poi del mio latente narcisismo, che si sta lamentando molto per la scelta finale che ho fatto – e in realtà non posso nemmeno essere certo che sia davvero riuscito a sfuggire a questo bias cognitivo, ma così almeno spero lo stesso di raggiungere anche un altro scopo, oltre all’appagamento del mio ego.

Questa foto, questi sassolini, sono un terreno frequente alle Galapagos, qualcosa di caratteristico. Si possono trovare grandi distese di questo miscuglio contrastante di bianco e nero. Alle Galapagos c’è la più fiabesca reificazione della storia dell’uomo e della nostra casa, raccontata attraverso la natura, gli animali, le piante, e perfino le rocce e il terreno. E in questa foto anche: la storia lontana e quella recente.

I sassolini neri sono rocce di origine vulcanica, perché questo è l’arcipelago: ciò che resta di una serie di eruzioni avvenute – e che continuano ad avvenire – da milioni di anni che hanno creato condizioni uniche ed eccezionali per l’habitat che vi si è formato. La magica casualità della natura ha creato paesaggi meravigliosi, tunnel lavici, crateri vulcanici, ognuno dei quali ha le sue storie da raccontare, i suoi gioielli da mostrare e i suoi animali a narrare. E poi ci sono quei sassolini bianchi, che creano quel contrasto così eccezionale e particolare, un contrasto acuitosi e divenuto inquietante quando una guida locale ha fatto luce sulla sua natura. È corallo. Corallo morto.

Improvvisamente camminare su quel terreno ha avuto tutto un altro sapore, sentire lo scricchiolio sotto i piedi dava la sensazione di camminare su una distesa di ossa. Tutto d’un tratto era come essere stati catapultati nel mezzo di una fossa di cadaveri. “L’88% del corallo delle Galapagos è morto” disse il ranger. Tutto, quasi. Non era un fenomeno isolato, era una macelleria.

Io l’ho fatto. Sono stato io a ucciderli. E anche tu lo hai fatto, anche tu li hai uccisi. Essere assassini inconsapevoli poteva alleviare la responsabilità, forse, ma da adesso lo sai, adesso sai che siamo assassini. Li abbiamo uccisi noi, con le nostre abitudini, coi nostri sprechi, con la nostra ignoranza, con la noncuranza. Lo abbiamo fatto. Il riscaldamento globale. È come una pistola fumante che improvvisamente ti ritrovi in fondo al tuo braccio, nella tua mano, col dito indice ancora ben aderente sul grilletto.

Hai sparato tu. Ho sparato anch’io. E se non ce ne accorgiamo continueremo a farlo finché non ci sarà più niente a cui sparare, e allora spareremo anche a noi stessi, e finiremo come quel corallo, a comporre una magica e inquietante distesa di ossa per coloro che, forse, un giorno, vi cammineranno sopra, meravigliandosi di come abbiamo potuto farci questo, a noi, alla nostra casa.

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