Economia & Lobby

Reddito di cittadinanza e salario minimo, le polemiche facili (e sbagliate)

Nel dibattito sul reddito di cittadinanza e, oggi, sul salario minimo, si è affermata una nuova categoria di commentatore: il pianificatore sovietico inconsapevole. Si tratta di quel tipo di editorialista o opinionista da talk show che di solito è privo di ogni conoscenza di economia, ma si ritiene comunque titolato a dare lezioni di politica economica, di solito con una certa sicumera.

Di fronte a ogni problema il pianificatore sovietico inconsapevole ha sempre la risposta pronta. Il 45% dei dipendenti privati nel Mezzogiorno ha redditi da lavoro netti inferiori a quelli garantiti a un disoccupato che dichiara reddito zero e che ottiene il massimo dal reddito di cittadinanza. Questo, secondo l’ex presidente dell’Inps Tito Boeri e Confindustria, crea disincentivi al lavoro o incoraggia il lavoro nero, perché conviene vivere di sussidio. Ma la soluzione, risponde il pianificatore, è facilissima: basta alzare i salari.

Il pianificatore sovietico inconsapevole non ha alcuna idea del fatto che i salari dovrebbero essere legati alla produttività, che dare aumenti a pioggia non è spesso utile all’economia nel suo complesso e talvolta non è neppure possibile. Ma il pianificatore non si pone domande complesse: pensa che il governo possa alzare i salari, se proprio lo vuole (come? Tagliando le tasse sul costo del lavoro? Facendo altri 80 euro come quelli di Matteo Renzi che di solito i pianificatori sovietici inconsapevoli contestano?). Il pianificatore pensa di essere – appunto – in una economia pianificata in cui basta una apposita leggina e tutto si adegua in tempo reale.

Archiviato il dibattito sul reddito di cittadinanza nella beata inconsapevolezza di questioni che fanno discutere gli economisti da secoli (creare le condizioni per le quali un povero resterà sempre povero e dipendente dai sussidi è un rischio che al pianificatore non interessa), ora i nostri sovietici inconsapevoli si dedicano al salario minimo orario che prima il Pd e ora il Movimento Cinque Stelle vogliono introdurre.

Intendiamoci: la questione è rilevante e i Cinque Stelle hanno sempre avuto chiaro che il reddito doveva essere accompagnato da un salario minimo anche per evitare che i datori di lavoro potessero ricattare i beneficiari del sussidio, costringendoli ad accettare salari molto bassi per evitare di perdere l’accesso al reddito di cittadinanza. Come sempre, però, il diavolo sta nei dettagli. Vediamone qualcuno.

1. Primo punto: non è detto che l’Italia abbia davvero bisogno di un salario minimo orario. Come ha ricordato Stefano Scarpetta dell’Ocse in audizione in Parlamento, in Italia la percentuale dei lavoratori dipendenti coperta dai 900 accordi collettivi di settore a livello nazionale è tra il 96 e il 99 per cento, a seconda della classificazione. Quindi quasi tutti i dipendenti oggi hanno già, di fatto, un salario minimo orario (anche se magari non indicato su base oraria ma mensile).

Al massimo il salario minimo servirebbe a chi non è dipendente: dai rider che vi consegnano il sushi agli architetti ai praticanti degli studi legali, per chi viene pagato a voucher. Ma non tutti questi lavoratori hanno un impegno misurabile in ore. E non per tutti il problema deriva dall’entità della retribuzione, quanto dall’inquadramento: sono veri professionisti? O sono soltanto dipendenti mascherati, privi di tutele?

2. Secondo punto: un salario minimo di nove euro all’ora rischia di essere troppo alto. Questo è uno di quei casi in cui non è detto che “più ce n’è meglio è”, anche se i pianificatori sovietici inconsapevoli vorrebbero salari alti, sempre più alti, perché è giusto così. Come si vede dal grafico Ocse qui sotto, nove euro è più del minimo in molti settori in Italia. Le imprese che operano in questi settori si troverebbero ad affrontare considerevoli aumenti di costo che potrebbero spingerle a ridurre il numero di occupati.

Per i confronti internazionali si usa l’indice di Kaitz, cioè il rapporto tra salario minimo e quello mediano (cioè sotto il quale si trova la metà dei lavoratori): in Italia, grazie ai contratti collettivi, è più alto che in Paesi che hanno il salario minimo imposto per legge. Addirittura abbiamo l’indice più alto di tutti i Paesi Ocse, pari all’80%. Nel confronto internazionale risulta invece più basso il salario medio (intorno a 12 euro) e quello mediano. Gli stipendi sono bassi, insomma, ma non perché sono troppo bassi gli stipendi minimi.

Inoltre, costringere i datori di lavoro a pagare di più i dipendenti a parità di prestazioni può avere molti effetti collaterali: incentivare il lavoro nero, spingere all’outsourcing (l’impresa compra il servizio da una cooperativa che riesce ad aggirare i minimi), mandare in crisi imprese che non possono permettersi costi più alti, far salire la disoccupazione. Tutte cose inconcepibili nell’universo del pianificatore sovietico inconsapevole, che invece pensa di vivere in un mondo ottocentesco in cui se i salari sono bassi è soltanto colpa di padroni ricchi e cattivi.

3. C’è poi un terzo punto che sfugge completamente alla visione semplificata del mondo dei pianificatori sovietici inconsapevoli: il problema non è quanto è pagata la singola ora di lavoro, ma quante ore lavorano oggi gli italiani. Come ha osservato la Fondazione Di Vittorio della Cgil, il tasso di occupazione italiano (quanta gente lavora tra quella che potrebbe farlo) è tornato ai livelli pre-crisi: ci sono 23 milioni di occupati. Peccato che tra questi soltanto 19 milioni siano occupati full time, mentre 4 milioni sono part-time involontari (gente che vorrebbe lavorare di più ma non ne ha la possibilità). Siamo tornati al 1993, quando però a fronte di 19 milioni di full time i part time erano solo 2,5. Tradotto: rispetto al 2008, noi italiani lavoriamo 2,2 miliardi di ore in meno ogni anno (-4,8%).

Aumentare il salario minimo darà un piccolo beneficio a persone che invece avrebbero bisogno di aumentare l’orario di lavoro. E le ore lavorate potrebbero addirittura diminuire perché, con il salario minimo, alle imprese costeranno di più.

Insomma, quando nei dibattiti o sui social vi imbattete nelle invettive dei pianificatori sovietici inconsapevoli, leggetele con il giusto distacco: sottolineare l’importanza di una redistribuzione della ricchezza anche attraverso un aumento dei redditi da lavoro è sicuramente apprezzabile. Ma la totale ignoranza delle questioni su cui i pianificatori investono il loro capitale di indignazione rischia di dare l’illusione che problemi complessi hanno soluzioni semplici che non vengono applicate soltanto per odio di classe. Se tali soluzioni non sono state prese in considerazione finora è perché – di solito – sono soltanto sciocchezze.