Zingare, maghe streghe, ladre, ladre di bambini, mendicanti, pericolose divoratrici d’uomini, moralmente depravate… questa l’immagine delle “zingare” tramandata e ripetuta nel tempo. Mia bisnonna Vida portava la gonna lunga e un fazzoletto in testa, era analfabeta. Rimasta vedova a 20 anni, lavorava nei campi dei contadini, si arrangiava per portare avanti la famiglia. A volte faceva le pulizie nella chiesa e nella casa del patriarca serbo German, e mi raccontava mio padre che a volte il patriarca le regalava la stoffa che usava per la Santa messa che si considerava portasse bene alla famiglia che ce l’aveva. Mia bisnonna la tagliava in pezzettini piccoli e la vendeva ai contadini. Cosi si è costruita la piccola casa nel villaggio nella quale ha vissuto fino alla fine della sua vita. Me la ricordo, mi teneva in braccio davanti alla stufa a legno e mi raccontava tante storie fantastiche. Quando i miei nonni mi sgridavano per qualsiasi motivo si metteva a difendermi: “È una femmina, per lei la vita sarà già durissima, non deve essere sgridata già da piccola”. Poi mi diceva: “Se nasci donna devi diventare forte, se nasci zingara devi diventare una roccia”. Studia, devi diventare intelligente e furba, con i nostri Rom ce la caviamo ma con i gage è difficile”.

Anche oggi è così. La differenza è che nella Serbia degli anni 80 non c’erano Salvini e la Lega, le ruspe servivano per costruire le case per la povera gente e l’antiziganismo era un’opinione personale di alcune persone e non un’arma politica in mano ai partiti xenofobi e razzisti. Per questo la mia bisnonna ce l’ha fatta nella sua impresa di riscatto sociale. Oggi in un contesto politico e sociale nel quale le conquiste di quegli anni sembrano sempre di più quadri sbiaditi, nel quale un partito di governo come da migliore tradizione fascista afferma che missione della donna è garantire la sopravvivenza della nazione, nel quale ogni due giorni una donna viene uccisa, nel quale si vogliono riaprire le “case chiuse”, nel quale le donne nonostante mediamente più istruite vengono pagate meno e partecipano meno ai processi decisionali, dove sono le donne rom?

Tanti quando si occupano delle donne rom e sinte parlano di doppia discriminazione, quella all’interno della comunità e di quella all’esterno della comunità, da una parte perché donne e dall’altra in quanto rom.

Negli ultimi anni le donne all’interno della comunità rom e sinta hanno velocemente e fortemente modificato i rapporti interni, i matrimoni precoci sono una pratica minoritaria di poche comunità che vivono le condizioni più precarie, le donne sono diventate leader e, oltre che occuparsi della crescita dei figli, sono loro a scendere in piazza per chiedere lo scuolabus, spesso sono loro alle quali si chiede di “parlare “ a nome di tutti, e basta guardare un po’ i social, i profili delle donne rom e sinte per vedere il modo diverso di vestire e di presentare se stesse, tutte cose che un occhio esterno non vede anche perché non lo cerca e si preferisce fare ricerche per ribadire vecchi pregiudizi consunti sui matrimoni precoci.

Non c’è dubbio che nessuna comunità rimane impermeabile al contesto nel quale è inserita. Questo contesto porta modi diversi di essere e di esprimersi. Per cui una donna come Laura Halilovic nei suoi film può ricordare con tenerezza la tradizione e il lavoro di calderas del padre e poi esprimere la voglia di libertà di una ragazza che vuol fare la regista e sfugge al matrimonio combinato. Oggi nella maggior parte delle comunità il corpo della donna non è più un tabù e queste emancipazione va dal jeans alla laurea (oddio donne rom laureate!, immagino la faccia della Santanché, ma una ricerca direbbe che sono più le donne laureate che gli uomini).

Eppure l’immaginario collettivo vede solo la faccia che la propaganda razzista, una politica interessata o pavida e il velo del pregiudizio e una ancestrale discriminazione coltivata anche da buona parte dei media rappresentano: “zingari” brutti, sporchi e cattivi e donne ridotte in schiavitù, vittime di abusi e sfruttamento. Io non sono l’avvocato difensore del mio popolo, e non sto qui a spiegare quanto sarebbe ovvio non considerare come generale la condizione di quelle comunità costrette in ghetti orrendi  e quanto è stato fatto per mantenerle in quelle condizioni (campi ai margini estremi della società, le varie mafia capitale, l’uso dell’odio, ecc.). Ma a tutti i cultori di odio e pregiudizio voglio dire solo una cosa.

C’è un terreno nel quale  si può dire – non so con quanto orgoglio – “prima gli italiani”: in un Paese nel quale le donne sono pestate, sfregiate, bruciate e uccise da mariti, fidanzati, amanti, nel quale il 90% della violenza è in famiglia da noi il femminicidio non esiste. Questo segna la differenza più profonda nel rapporto con la donna nella nostra comunità e ci fa dire viva l’8 marzo, liberiamoci tutte, grazie per i fiori ma dateci rispetto.

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Quando si entra in un carcere femminile si trovano storie che sembrano di un’altra epoca

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