Oggi è la giornata della piazza: le manifestazioni indette nelle principali città d’Italia porteranno in corteo migliaia di attiviste e lavoratrici. Alcune di loro, però, non potranno partecipare perché – per definizione – sono invisibili: nel suo post, Eretica cita le badanti, le sex workers, le donne migranti. Persone in una condizione di precarietà tale per cui anche protestare somiglia a un lusso: “E’ una malattia che coinvolge le persone che sono costrette a restare nel proprio ambiente di lavoro, isolate da tutto, senza poter allontanarsi neppure la notte, e tutto ciò è ingiusto. Eppure nessuno ne parla”. Tra le storie citate da Eretica c’è anche quella di Mina, “donna trans che non riesce a trovare un lavoro decente da anni solo perché trans”. Sul blog di Wake up London, associazione delle persone Lgbt+ italiane a Londra, Alexis Bonazzi racconta la sua di storia, quella di una donna con all’anagrafe un nome maschile.

Di movimentismo invece c’è la professoressa Giovanna Cosenza che si domanda che fine abbia fatto la “rinascita femminista” di dieci anni fa, nata attorno alla rete di “Se non ora quando”. Dalla grande manifestazione del febbraio 2011 in piazza del Popolo ad oggi, le classifiche internazionali sul Gender gap uomo-donna sono rimaste impietose per noi: l’ultimo dato, relativo al 2018, colloca l’Italia al 70° posto trascinato in basso da un indice di economic participation and opportunity saldamente fermo al 118° posto. Al discorso si riallaccia Nadia Somma, scrittrice e attivista presso i centri antiviolenza, con il tema delle disparità salariali. Non solo il divario tra gli stipendi degli uomini e quelli delle donne italiane sfiora (e in alcuni ambiti supera abbondantemente) il 30%, ma si verifica il paradosso per cui più le donne sono istruite e più sono penalizzate. “Proprio in questi giorni si è scoperto che una sola azienda in Italia paga uomini e donne allo stesso modo – aggiunge Luisella Costamagna sul suo blog – al punto da ricevere il premio ‘Equal Salary’: è la Philip Morris di Bologna, guarda caso una multinazionale”.

Il colloquio di Iside Gjiergj con Andrea Iris D’Atri, fondatrice e leader di uno dei più importanti collettivi femministi (Pan y Rosas) in America Latina, lega la condizione femminile alla salute dell’intero Paese: “Attualmente, la spesa per elettricità, acqua e gas richiede il 25% del salario minimo, rendendo l’Argentina il Paese dove più si paga per i servizi pubblici, subito dopo il Venezuela. Tutto ciò pesa, fondamentalmente, sulle spalle delle donne, la cui stragrande maggioranza svolge lavori precari”. Discorso a parte per i Paesi arabi del Mediteranneo dove la strada per la parità di genere è ancora molto lunga. Lo evidenzia Claudia De Martino, ricercatrice, sul blog del Centro Studi Unimed, snocciolando cifre sull’Egitto: “Secondo le Nazioni Unite, il 26% delle donne egiziane hanno subito violenze da parte di partners o familiari, l’87% è ancora esposta a mutilazioni genitali femminili e il 17% si sposa al di sotto dell’età legale senza alcun controllo”.

INDIETRO

8 marzo, (ri)diamo la parola alle donne. Precarie, prof e militanti: oggi l’agenda dei nostri blog la dettano loro

AVANTI
Articolo Precedente

8 marzo, dal ddl Pillon all’aborto a Desirée e Sana: le minacce ai diritti delle donne che fanno gridare al Medioevo

next
Articolo Successivo

8 marzo, che fine ha fatto il neofemminismo di dieci anni fa?

next