di Claudia De Martino*

I diritti delle donne non prescindono dallo stato di salute democratica del resto della società: non rappresentano un corpus separatum, ma piuttosto una componente fondamentale del buon funzionamento di una società che voglia definirsi pienamente democratica nel 21° secolo. Insieme alle donne, i bambini, le minoranze religiose, etniche e sessuali e i migranti rappresentano le altre categorie tradizionalmente più vulnerabili i cui diritti devono essere tutelati attraverso politiche attive, secondo un principio di uguaglianza che non può considerarsi naturalmente dato, ma che è il frutto della maturazione politica dell’opinione pubblica e di una legislazione ad essa conseguente.

Nel mondo arabo, che è difficile identificare come un’area politica omogenea, si raffrontano situazioni profondamente diverse per quanto riguarda la tutela e l’espressione dei diritti delle donne, che in alcuni Paesi come la Tunisia hanno raggiunto uno stato di uguaglianza giuridica (ma non economica e salariale) pari a quello conseguito dalle donne nei Paesi dell’Europa del sud, mentre in altri Paesi come l’Egitto, risentendo della più generale stretta democratica sui diritti operata da un governo fortemente autoritario, registrano una battuta d’arresto.

Se quindi in Tunisia nel 2016 si sono festeggiati i 60 anni dello statuto del codice personale che garantisce parità giuridica alle donne, e si discute al momento di come tradurre tale uguaglianza in pari diritti d’accesso all’eredità, in Egitto si è tornati bruscamente indietro dopo il colpo di Stato militare del 2013, e in Paesi più retrivi come l’Arabia Saudita i pochi progressi delle donne – come il diritto di voto alle elezioni municipali, ottenuto solo nel 2015, e quello di guidare – si scontrano con il fuorviante impiego della tecnologia a fini di controllo sociale. Esempio eclatante è l’app Absher, scaricabile da Googleplay, che permette ai familiari maschi, ancora definiti come i guardiani morali delle loro donne, di controllare in remoto la loro libertà di movimento e il loro eventuale espatrio dal Paese. Oggi che il giovane principe ereditario Mohammed Bin Salman non è più ritratto apologeticamente dalla stampa occidentale come il “grande modernizzatore” del suo Paese, si comprende come il cammino delle donne saudite verso l’uguaglianza sia ancora molto accidentato.

Ferisce di più la battuta d’arresto sperimentata dall’Egitto, dove storicamente le donne si sono sollevate con un grande sciopero della fame nel 1954 per ottenere il diritto di voto – che avrebbero conseguito due anni dopo – e dove già nel 1923 la grande femminista egiziana Huda Shawaari aveva invitato le sue concittadine a non sottostare alla dittatura maschile del velo, sfilandoselo impunemente in pubblico. Nel 2000, la Khula Law autorizzò per la prima volta le donne a chiedere autonomamente il divorzio, così come a richiedere un passaporto senza il consenso maritale. Nel 2004 i primi tribunali di famiglia videro la luce, con l’obiettivo di garantire giuridicamente i diritti delle donne, tra cui quello di accesso a contributi erogati dal Fondo Assistenziale per le Famiglie: un fondo assistenziale per donne divorziate e minori. Sempre nel 2004, per la prima volta, ai figli di donne egiziane sposate con stranieri fu garantita la cittadinanza egiziana (legge 154) e nel 2008 la custodia materna dei figli fu estesa fino ai 15 anni di età, e l’età legale per il matrimonio innalzata a 18 anni. Ai bambini fu anche consentito assumere il cognome della madre in caso di madri sole.

Negli ultimi anni di governo dell’ex Presidente Mubarak, le donne egiziane avevano anche iniziato autonomamente a sollevarsi e organizzarsi contro la violenza di genere: era il 2005 quando un episodio ricorrente al Cairo – la perturbazione di una manifestazione di giovani donne da parte di uomini che non accettavano il ruolo delle donne nella dimensione pubblica – fece scattare nelle attiviste cairote il desiderio di denunciare le violenze di genere che avvenivano periodicamente ai danni di quella minoranza di donne che, sfidando il consenso sociale, si esponeva a manifestare. Nacquero così varie organizzazioni non governative femminili contro la violenza di genere poco supportate dal governo in termini finanziari, ma forti della tacita tolleranza delle autorità.

Nel 2011, nello scoppio delle Primavere arabe le donne egiziane videro un’occasione per contribuire alle manifestazioni per la cacciata di Mubarak su una base di parità con gli uomini, nell’illusione che le rivolte democratiche avrebbero condotto a un’estensione universale dei diritti. I social media offrirono la sponda per una comunicazione politica più libera perché parzialmente indipendenti dai controlli della censura: così, anche le donne si organizzarono per riempire un nuovo spazio di parola e di interazione sociale. L’egiziana Sally Zojney, un’impiegata delle Nazioni Unite certamente poco rappresentativa della condizione media delle donne del suo Paese, insieme alle coetanee libanesi – la ballerina Yalda Younes e la fisica Diala Haidar – e all’esperta palestinese di sviluppo sostenibile Farah Barqawi, vi lessero l’opportunità di fondare un gruppo transnazionale di opinione al femminile (Intifada al mar’a) su Facebook che portasse avanti la lotta delle donne del mondo arabo in modo trasversale. Il gruppo raggiunse al suo apice 120.000 utenti: certamente pochi per 22 Paesi arabi che contano circa 450 milioni di persone, ma per la prima volta nel mondo arabo uomini e donne ebbero la possibilità di discutere di diritti di genere e sessualità in uno spazio di parola libero dalla censura. Appena un anno dopo, esso sarebbe stato censurato da Facebook stessa su pressione di utenti che avrebbero espresso sgomento per i contenuti veicolati dalla pagina.

Durante il breve governo dei Fratelli Musulmani del Presidente Morsi, prima del colpo di stato militare del 2013, le donne egiziane appuntarono le loro paure di un possibile regresso sociale e giuridico sui tentativi del piccolo partito salafita al-Nour di riscrivere la costituzione definendo le donne come complementari agli uomini e sottoponendo il diritto di famiglia alla Shari’a. Tuttavia, esattamente come i loro concittadini maschi, esse non seppero comprendere in tempo che la vera minaccia non veniva da una minoranza di estremisti religiosi, ma da una forza ben strutturata e posizionata come l’esercito, intenzionata a strumentalizzare la paura dei laici per assumere il controllo del Paese. Dopo la presa del potere da parte dei militari, i diritti delle donne hanno subito una battuta d’arresto direttamente legata alla chiusura degli spazi pubblici e di parola, alla repressione delle manifestazioni e di ogni forma di dissenso, al controllo capillare esercitato dall’autorità militare su tutti i cittadini egiziani.

Se nominalmente i diritti delle donne rappresentano un canale di propaganda preferenziale per il Supremo Consiglio delle Forze Armate (che nella Costituzione del 2014 ha inserito articoli contro la violenza di genere e le mutilazioni genitali femminili, e nel 2015 ha istituito un’unità di polizia contro la violenza sulle donne), ciò stenta a tradursi in progressi reali. Secondo le Nazioni Unite, il 26% delle donne egiziane hanno subito violenze da parte di partners o familiari, l’87% è ancora esposta a mutilazioni genitali femminili e il 17% si sposa al di sotto dell’età legale senza alcun controllo. Inoltre l’Unità di polizia contro la violenza di genere non sembra ancora attiva. Quando sono le donne stesse a denunciare pubblicamente la condotta lassista delle autorità, come nel caso di Amal Fathy – una giovane vittima di molestie sessuali che ha condiviso la sua rabbia postando un video su Facebook – la repressione non si è fatta attendere, espressa in una severa condanna dell’attivista a due anni di carcere nel settembre 2008.

In generale, nelle società arabe è in corso un dibattito sul femminismo che investe la natura e gli obiettivi stessi del movimento: è lecito per le donne arabe ispirarsi a idee politiche di emancipazione improntate al contesto secolare occidentale nel quale tali idee sono nate e prosperate? Le nuove femministe islamiche propendono per una maggiore contestualizzazione della loro lotta per i diritti all’interno della cultura musulmana. Quest’ultima non nega di per sé maggiori libertà alle donne, come il diritto all’istruzione, all’eredità, all’occupazione e alla libertà dalla violenza, ma prescrive il rispetto dei ruoli di genere sanciti dalla religione e la complementarietà sociale tra i due sessi. Alcune femministe islamiche intendono “indigenizzare” il dibattito femminista, denunciando le pressioni e le sovvenzioni occidentali di cui godono le organizzazioni arabe femminili laiche, ma anche lo spostamento del dibattito su categorie che sono estranee al pensiero islamico, come la libertà religiosa, l’aborto, il matrimonio civile, la libertà e l’orientamento sessuale.

Se saranno le femministe laiche o islamiche a prevalere nei Paesi arabi del 21° secolo non possiamo ancora saperlo, ma certamente le donne arabe hanno un lungo cammino di fronte a loro per far accettare agli uomini che l’uguaglianza tra i sessi non è solo un diritto codificato, ma una pratica quotidiana e diffusa che promuove l’emancipazione nei luoghi di lavoro, nel contesto familiare e nella sfera pubblica. Non si tratta solo di sollevare grandi questioni morali universali e di facile consenso trasversale come la lotta alla poligamia e alle mutilazioni genitali, ma è il momento di scardinare in profondità il funzionamento di società da millenni improntate al maschilismo: una sfida quasi impossibile per le donne in contesti non democratici come quelli di molti Paesi arabi contemporanei, oggi regrediti rispetto alle domande sociali avanzate nelle Primavere.

*ricercatrice ed esperta di questioni mediorientali

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