Fotogrammi di Mario Molinari

A pochi metri dai cancelli di quella che era “la città del Cinema”, che produceva le pellicole della commedia all’italiana, l’erba invade i cortili delle palazzine, abbandonate come certi quartieri dell’Est Europa, dopo il crollo del socialismo. Un proiettore divorato dalla ruggine presidia ancora una sala del “Dopolavoro”, che, sin dagli anni 30, offriva ai dipendenti un bar, un teatro e un cinema.

“Questo era il ‘Palazzo degli Scapoli’ – racconta Antonio Mastromei che in Ferrania ha passato 36 anni -, la palazzina che ospitava i laureati neo-assunti. Ci ho vissuto dal settembre 1960 fino all’agosto 1961, quando mi sposai. Ho passato molte sere da solo, ma ero già fidanzato. Però in valle c’era una vera e propria ‘caccia allo scapolo’, soprattutto da parte delle figlie dei capireparto”. Pare che alcune passioni non fossero proprio disinteressate. “La levatrice di mio figlio – racconta Mastromei – diceva che, prima della guerra, vigeva una specie di ius primae noctis. Era una fabbrica di interesse nazionale e per entrarci si faceva di tutto”.

Sulla strada deserta passa solo qualche auto. “È molto triste guardare questo cancello – dice Giamauro Ardizzone, 90 anni, ex-dirigente della Ferrania – quando c’eravamo noi, al mattino, entravano mille persone. C’era una vera affezione per la fabbrica. Ricordo un inverno in cui gli autobus erano bloccati e gli operai, pur di lavorare, arrivarono a piedi, nella neve”.

Se i dipendenti più anziani ricordano la ditta come una grande famiglia, quelli falciati dalla chiusura definitiva del 2013 masticano amaro, come Furio Mocco, un ingegnere informatico che è stato uno dei portavoce dei lavoratori. “Avevo un curriculum di tutto rispetto. Quando abbiamo avuto la certezza della chiusura ho spedito 12mila curricula in tutta Italia, che hanno prodotto due o tre colloqui. Le risposte erano: ‘Possiamo offrirle un impiego da neoprogrammatore’. Si parlava di compensi molto più bassi, tra i 1100 e i 1200 euro, con trasferimenti su Milano o Torino a mie spese, ma avrei accettato qualsiasi cosa pur di arrivare alla pensione (avevo 55 anni). Invece dopo un po’ mi richiamavano e: ‘Nella posizione che abbiamo aperto c’è un limite di età’. Alla fine ho ripiegato su una contribuzione volontaria, ma mi sono dissanguato”.

Oggi Furio collabora come volontario con la Pallavolo di Carcare, come arbitro e come grafico, curando i volantini: “Per tornare ad avere un rapporto con la gente, con i giovani”. Quando venne licenziato dalla Ferrania, Marco Zagaria aveva 33 anni, e dopo tre anni di mobilità è riuscito a ricollocarsi. Che cosa lo ha aiutato? “Il fatto che ho la testa dura, che non mi arrendo mai – dice accanto alla bici con cui esplora i boschi della valle [si è pure rotto due costole, ndr] – quello che chiedo è solo buona salute per lavorare e combattere, anche per mio fratello che ha 50 anni ed è senza lavoro. Son quelli che stanno peggio. Il fisico cambia e non ce la fa a sopportare i ritmi nelle ditte di adesso”.

Il fisico è stato anche uno dei problemi che hanno reso difficile la vita di Alessandro Bechis: “Perso il lavoro, alla soglia dei 50 anni, ho cercato di reinventarmi, ma non è stato possibile perché, oltre all’età, ho un’invalidità, una difficoltà di deambulazione. Sono entrato in Ferrania a 22 anni e ho tirato su due figli. Ho sempre badato a me stesso, con decoro, con onore, e ora dipendere dalla pensione di mia mamma mi ammazza. Non fossi invalido farei qualunque lavoro, anche il camallo”.

Alessandro è un esempio della dignità di quella che era la classe operaia della Valbormida. Da volontario, collabora col Ferrania Film Museum di Cairo, la “memoria” di quella che era una delle più importanti aziende del Paese. Con le sue conoscenze (e il suo look da nocchiero) sarebbe un ottimo storyteller, se una gestione del turismo regionale intelligente decidesse un giorno di dare un senso all’archeologia industriale del Savonese.

“Leggendo le cartelle dell’ufficio personale – racconta – ho trovato anche quelle di mio padre, di mia zia, di mio nonno. Il direttore, l’ingegner Schiatti, leggeva tutte le lettere e sapeva tutto dei dipendenti. C’era chi gli scriveva per far assumere il figlio, c’erano mogli che chiedevano notizie dei mariti al fronte. E lui scriveva ai comandi o ai dipendenti in divisa per mandargli dei soldi e dirgli ‘la fabbrica ti sta aspettando’. Un epistolario lungo 40 anni. C’era un senso di famiglia che oggi sopravvive in pochissime aziende”.

Articolo Precedente

Blutec, Di Maio vede sindaci e sindacati: “Assicurati sei mesi di ammortizzatori sociali. Ora azienda rispetti impegni”

next
Articolo Successivo

Lavoro, canali di ricerca sbagliati e stipendi bassi. Che cosa c’è dietro le storie di chi offre un posto e “non trova candidati”

next