È il febbraio del 2010, Reti televisive italiane (Rti) e Valentina Ponzone – interprete della sigla di Kilari, un cartone animato – scoprono che su Facebook è stata aperta una pagina dal titolo “Valentina Ponzone nei panni di Kilari è assolutamente ridicola” e che la pagina ci ha messo poco a divenire, tra l’altro, ricettacolo di un certo numero di insulti indiscutibilmente volgari e offensivi nei confronti della Ponzone, di critiche sopra le righe nei confronti dell’emittente televisiva e di un paio di link che puntano ad altrettanti video della sigla e del cartoon pubblicati su YouTube. Rti e Ponzone, quindi, segnalano a Facebook quanto sta accadendo. Non una volta, non due, non tre ma almeno cinque, in una manciata di settimane.

Scrivono a Menlo Park in California e in Irlanda e chiedono che la pagina in questione venga chiusa, perché offende la loro immagine e reputazione e perché viola i propri diritti d’autore. Ma il social network prima resta silente e poi risponde picche. Gli uomini di Mark Zuckerberg non ritengono di poter chiudere una pagina perché contiene alcune critiche, benché volgari e offensive, all’indirizzo di un’emittente televisiva e dell’interprete della sigla di un cartoon, né perché un utente ha pubblicato un paio di link a video già comunque accessibili al mondo intero attraverso YouTube.

Nel gennaio del 2012, tuttavia, in casa Facebook capitolano e decidono di chiudere la pagina. Storia finita? Niente affatto. Rti e l’interprete della sigla del cartone animato non ci stanno. Facebook avrà anche chiuso la pagina, ma ci ha messo quasi due anni. Due anni nel corso dei quali la loro immagine è stata offesa dagli insulti pubblicati dagli utenti del social network e i loro diritti d’autore sono stati violati attraverso la pubblicazione dei link a quei quattro minuti e mezzo pubblicati su YouTube.

Su questi presupposti, trascinano Facebook Inc. e Facebook Ireland davanti al Tribunale di Roma e chiedono che vengano condannati a risarcirgli i danni loro provocati e, soprattutto, che venga loro ordinato di fare in modo che nulla del genere accada di nuovo.

Il 15 febbraio scorso, proprio mentre a Bruxelles la proposta di direttiva europea di riforma del diritto d’autore online otteneva la luce verde e si avviava a rendere ancora più palese la responsabilità dei gestori delle piattaforme in ipotesi come questa, il Tribunale di Roma ha pronunciato la sua sentenza e condannato Facebook per aver consentito ai propri utenti di offendere Rti, l’interprete della sigla del suo cartoon nonché per aver, così a lungo, consentito la pubblicazione di quei due link a quei quattro minuti e mezzo di immagini animate pubblicate su YouTube.

Ma, soprattutto, il Tribunale di Roma ha ordinato a Facebook l’impossibile, vietandogli “la futura violazione dei diritti oggetto di causa perpetrata in qualunque forma e con qualunque mezzo”. Facebook, in sostanza, non dovrebbe mai più consentire a un proprio utente di offendere Rti, l’interprete della sigla del suo cartoon o di violare i diritti d’autore di tali soggetti. La vicenda è vecchia di quasi dieci anni, tutto sommato marginale nell’ecosistema mediatico nazionale e in parte superata dal tempo e dagli eventi, ma impone una manciata di considerazioni.

1. La violenza verbale gratuita degli utenti “autori” della pagina Facebook protagonista della vicenda lascia interdetti. Gli epiteti umanamente irripetibili indirizzati all’indirizzo di una cantante di sigle di cartoni animati per bambini sono, sfortunatamente, la più plastica testimonianza di una crisi valoriale dilagante, davanti alla quale ogni altra questione dovrebbe passare in secondo piano.

Se ci sono cittadini italiani, tendenzialmente giovani – giacché evidentemente telespettatori del cartone animato in questione – capaci di concentrare in poche battute un così alto tasso di volgarità, violenza e disumanità significa che un intero sistema mediatico-educativo, la televisione, la scuola e la famiglia sin qui hanno purtroppo sbagliato molto o, il che fa lo stesso, fatto troppo poco per educare le nuove generazioni semplicemente a vivere in maniera civile nella società dei nostri tempi.

2. Sfortunatamente la vicenda e la decisione confermano che siamo un Paese che fa davvero fatica a capire quanto vale la libertà di parola e al quale decenni di pensiero unico e inaccessibilità per i più del sistema mediatico non hanno, evidentemente, insegnato abbastanza.

La riflessione è suggerita, da una parte, dall’osservazione – che i fatti all’origine della decisione impongono – del pessimo uso che gli utenti Facebook protagonisti della pagina in questione hanno fatto di un’opportunità per la quale i loro nonni o bisnonni hanno tanto combattuto, ma anche dal perseverare dei nostri giudici – sfortunatamente in compagnia dei loro colleghi europei – in un macroscopico errore di prospettiva dettato dapprima da un grave equivoco giuridico e quindi da un’altrettanto grave forma di miopia democratica.

E si tratta dell’aspetto più preoccupante della vicenda. Non può toccare a Facebook – né a nessun altro gestore di analoga piattaforma – stabilire dove inizia la diffamazione di una persona o di una società e dove finisce la libertà di informazione e non può neppure toccare a Facebook decidere se pubblicare due link a quattro minuti di video di un cartone animato pubblicati su YouTube significhi o meno violare gli altrui diritti d’autore.

A decidere cosa è lecito e cosa è illecito, in democrazia, deve toccare solo ai giudici o, almeno, a un’autorità pubblica all’esito di un “giusto processo”. È evidente, infatti, che continuare a spingere Facebook & C. a rimuovere sempre e in fretta pur di sottrarsi a eventuali responsabilità non fa bene alla libertà di informazione.

Ma non basta. È sbagliato, anzi, sbagliatissimo che in ragione della pubblicazione su una pagina di una manciata di commenti ingiuriosi di un pugno di maleducati e imbecilli, l’intera pagina venga chiusa. Significa non aver rispetto – nessun rispetto – della libertà di parola di chi l’aveva usata per critiche o, magari, congratulazioni più costruttive. Il fine giustifica i mezzi è principio antico, superato dai tempi, sommamente antidemocratico e che soprattutto mai dovrebbe applicarsi a contesti nei quali sono in gioco diritti fondamentali come la libertà di parola.

E, da ultimo, è democraticamente inaccettabile – oltre che giuridicamente privo di qualsiasi fondamento – ordinare al gestore di un social network da due miliardi e mezzo di utenti di impedire, per il futuro, che uno qualsiasi dei suoi utenti torni a offendere Rti o a pubblicare un link a un suo contenuto. Come dovrebbe farlo? E quali sarebbero le conseguenze per la libertà di parola se provasse a farlo davvero? Ma, sfortunatamente, è in questa direzione che va la proposta di direttiva europea di riforma della disciplina sul diritto d’autore, ormai sul rettilineo finale a Bruxelles.

Stiamo sbagliando strada. La libertà di parola vale più di così. Speriamo di rendercene conto prima che sia troppo tardi. Nel tentativo – sin qui vano – di richiamare i giganti del web al rispetto delle nostre regole, stiamo riconoscendo loro, giorno dopo giorno, più potere.

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