Birraio dell’anno, la kermesse del meglio della produzione brassicola italiana organizzata a Firenze da Fermento Birra, non rappresenta soltanto un’ottima occasione per bere bene ma permette anche di misurare la temperatura del movimento artigianale made in Italy. In questo senso il concorso che incorona il miglior birraio dell’anno appena concluso, per qualità e costanza, è solo un episodio al termine di una lunga, grande festa (scriviamolo subito, domenica è stato premiato Marco Valeriani di Hammer, che ha così bissato il trionfo dell’edizione 2016) e girando tra gli stand dei finalisti scelti da una giuria di esperti, addetti e professionisti del settore è possibile formarsi un’idea concreta, più vicina alla realtà delle pubblicità della grande industria e di stereotipi logori, sullo stato di salute della birra italiana.

Sono passati dieci anni dalla prima edizione e Nicola Utzeri, che sin da allora organizza l’evento, ci porge una prima chiave di lettura: “I birrifici che arrivano in finale sono sempre più strutturati, per emergere in un mercato competitivo come quello di adesso serve un prodotto unico, l’autorevolezza di un marchio, una valida forza comunicativa e solide capacità organizzative”. E assieme ai produttori, cambia anche il pubblico: in termini quantitativi, innanzitutto, con il numero di biglietti staccati in crescita continua – quest’anno 6300 ingressi rispetto ai 5500 del 2018 -, ma anche nella loro composizione e competenza: “Gli appassionati sempre più evoluti – continua Utzeri – e qui incontrano birrifici protagonisti di un processo complesso e sfaccettato”.

I birrai si riconoscono agilmente in un panorama mutato che non li vuole solo produttori, ma anche imprenditori: capaci di scelte innovative e strategiche e di un approccio complesso per sopravvivere in un settore reso difficile dalla ingombrante presenza della grande industria e da una domanda ancora insufficiente rispetto ad altri Paesi – con un consumo pro capite appena superiore ai 30 litri all’anno. Marco Valeriani di Hammer segnala l’ostacolo di una “crescita lentissima, legata a volumi di consumi ancora troppo bassi e concentrati in contesti ridotti, come il fine settimana dopo le sette di sera” o incardinati nelle vecchie, desuete equazioni pizza=birra o birra=estate.

Da Birra Mastino, Mauro Salaorni ricorda che “l’Italia non ha una grande tradizione brassicola, per conquistare i bevitori di birra industriale le strategie sono cercare di sviluppare le più svariate tipologie e stili diversi, ma anche, allo stesso tempo, facilitare la bevuta”.  Gli ultimi dati elaborati dal sito microbirrifici.org, fonte di informazione ineludibile per parlare di produzione di birra in Italia, segnalano una battuta di arresto nel numero di impianti operativi sul territorio nazionale: Luigi “Schigi” D’Amelio, il cuore e la mente di Extraomnes, interpreta e legge la statistica in un contesto ampio. “A partire dal ’95 il movimento è cresciuto ed esploso, fino a divenire un vero e proprio fenomeno di costume, e la contrazione nel numero di birrifici artigiani può essere spiegata come una tipica fase di consolidamento”. Ci vorrà ancora qualche anno, ma presto i numeri della birra in Italia, e soprattutto del segmento artigianale, raggiungeranno dimensioni ancora più importanti, decollando dal 5% circa di etichette craft rispetto alle vendite totali (i dati Unionbirrai del 2015, sicuramente superati, parlavano del 3,3%) per assestarsi, ad esempio, sugli stessi livelli degli Stati Uniti: 12,7% secondo le ultime rilevazioni della Brewers association: “Ed è un risultato – ritiene Schigi – che avverrà automaticamente, come effetto anche dei movimenti della distribuzione”.

Alessio Selvaggio, alla testa di Croce di Malto oltre che essere membro del consiglio direttivo di Unionbirrai, ritorna sulla mutazione della figura del birraio in Italia, passato “da una fase giovanile a una più matura. Il risultato è l’espressione dell’estro che un buon numero di imprenditori nazionali hanno saputo concretizzare, portando la birra italiana a essere una delle più rappresentative in ambito internazionale per qualità e innovazione”. Gli fa eco Lorenzo “Kuaska” Dabove, uno dei primi divulgatori di birre nel Belpaese, profondo conoscitore della realtà italiana così come del resto del mondo: “Nel racconto della rivoluzione craft che ha colpito tutto il mondo birraio, l’Italia è leader indiscusso dei soggetti ‘emergenti’: Spagna, Portogallo, Paesi scandinavi ma anche il Brasile sono tutti debitori dell’Italia e della sua grande forza, basata sul patrimonio della biodiversità e delle tradizioni. Un risultato che nasce da un lavoro lungo e durissimo, fatto alla base”.

Un lavoro continuo che non si ferma, e che necessita di serio approfondimento, studio e professionalità, come sottolinea Manuele Colonna, appassionato publican dello storico Ma che siete venuti a fa’ di Roma: “La birra è un prodotto semplice ma complesso al tempo stesso, che può dare svariate sorprese a livello gustativo”. Quali sono le strategie per rafforzare il settore, espanderne le capacità? “Educare il palato, lavorare a livello commerciale, sulla precisione del servizio, raccogliere le forze e dimostrare che c’è differenza tra una birra fatta dagli uomini e una fatta dal mercato”.

E poi, aggiungiamo, aiuterebbe anche un’ulteriore spinta a livello istituzionale, per adeguare finalmente il carico dell’erario sul settore rivedendo il peso delle accise che grava ancora sulle spalle di questi produttori, artigiani e imprenditori, artefici dell’eccellenza made in Italy e riconosciuti tali anche all’estero. Va in questo senso l’impegno contenuto nella legge di bilancio approvata a fine anno: manca soltanto il decreto ministeriale per rendere esecutivo un taglio drastico del 40% sulle accise per i microbirrifici con produzione inferiore ai 10mila ettolitri. Se lo merita, eccome, l’Italia che produce birra di qualità: lo scorso fine settimana a Firenze ci ha fatto vedere, e bere, quanto è buona.

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