C’è una notizia che più di altri mi ha colpito in questi giorni. La morte di Camilla Compagnucci, una bambina di nove anni romana, per un banale ma tragico incidente sugli scii, di cui tuttavia le responsabilità sono da accertare. Mi ha colpito perché Camilla, di cui ovviamente non so nulla, come non so nulla dei genitori (qui ne scrivo solo come spunto di riflessione) rappresenta in un certo senso la generazione dei bambini di oggi. Figlia unica, mamma lavoratrice (ricercatrice), vissuta in un quartiere romano pieno di alberi e parchi: immagino la sua nascita nove anni fa, la scelta di un nome che ho sempre amato moltissimo.

Immagino l’emozione della gravidanza, la decisione su dove partorire dopo un’attenta disamina degli ospedali. Immagino la madre, e forse il padre, che l’allattano con amore e dedizione assoluta. I primi mesi, la scelta su come conciliare lavoro e famiglia, forse una tata o baby sitter per i primi anni – anni di svezzamento, preparazione di pasti appropriati e scelti con cura, di giochi, di prime vacanze – forse un asilo nido e poi la scuola materna. Immagino tutti i giorni in cui è stata presa a scuola, l’allegria di vedere spuntare il suo viso dalla classe, i lavoretti portati a casa dall’asilo, il primo giorno di scuola, i primi compiti. Vedo i genitori accompagnarla ovunque, alle feste, allo sport, organizzare feste di compleanno belle e piene di amici e di allegria. Immagino la felice routine che si instaura quando un bambino entra in una casa, portando con sé il mondo dell’infanzia con le sue meravigliose domande, curiosità, con le sue emozioni potenti che mettono in discussione e ti danno la sensazione di essere – parlo per me e per chi ha fatto questa scelta – finalmente una persona completa, come se quel pezzo che mancava prima della tua vita di genitore fosse stato definitivamente messo a posto.

E poi in un attimo tutto questo si spezza per una caduta banale. Tua figlia muore e tu non sei neanche accanto a lei, perché hai cominciato, magari da tanto, magari da poco, a fidarti, ad affidarla e mandarla da solo, dopo anni di protezione totale, di supervisione costante. Ma quando un bambino, soprattutto un bambino che non ha fratelli muore, insieme a lui muoiono anche i suoi genitori. E no, non voglio dire che se una madre o un padre che hanno più figli perdono uno di questi la loro vita non sarà egualmente distrutta. Ma solo che se muore un figlio unico ogni traccia di infanzia sparisce, non c’è più niente che ti ancori a quel mondo di fantasia, immaginazione, poesia. È come se tornassi indietro, a quel senso di mancanza che avevi prima di avere figli e che ora però non è una vaga nostalgia ma uno strazio lacerante, e molto di più, forse persino l’impossibilità di continuare a vivere, perché nulla ha più senso, anzi ce l’ha ed è il senso di un incubo che non avrà fine.

Ho sempre seguito le storie di cronaca in cui erano coinvolti minori. Sono sempre stata interessata a capire come si riesca ad andare avanti e non finire di vivere. Per un articolo su questo giornale, ho conosciuto la mamma del bambino morto soffocato a Ikea Roma nel 2014, Francesco. Lei si chiama Alessia Vitti, con il marito fondato un’associazione che diffonde gratuitamente la conoscenza delle manovre di distruzione pediatrica. Ma soprattutto ha fatto altri due figli, subito dopo. È una madre lacerata – anche perché il suo caso è stato archiviato, come se non ci fosse nessun colpevole – ma ha risposto alla morte nell’unico modo (forse) possibile, cioè alla vita, senza nessuno intento di sostituzione perché il suo Francesco non tornerà più. Un altro caso mi aveva colpito, quello di una coppia che aveva perso tre figli, accompagnati dai nonni, in un incidente aereo. E poi aveva avuto altri due figli, subito dopo. Ma mettere al mondo altri figli non è una scelta per tutti. Il lutto può essere troppo forte oppure, banalmente e tragicamente, l’età può essere troppo avanzata ormai.

Ritorna la domanda iniziale: si soffre meno se si hanno più figli quando ne muore uno? Per rispondere forse dovremmo guardare al lontano passato, quando le donne, ancora nell’Ottocento, avevano sette, otto, dieci figli, di cui molti morivano prestissimo, per condizioni igieniche carenti, banali virus, infezioni che oggi curiamo con gli antibiotici. Bisognerebbe entrare nelle storie di quelle madri e di quei padri per capire se la loro sofferenza fosse più sostenibile della nostra. Io credo che da un lato la loro lacerazione fosse totale, anche perché quei bambini morivano spesso di malattia, cioè soffrendo terribilmente. Abbiamo scarsi documenti in merito, ma sono certa che la depressione delle madri dopo il lutto fosse consistente, nonostante gli altri figli. E tuttavia per un altro verso si era immersi così tanto nella vita e nella morte insieme che la fine era più accettabile, almeno un po’. E gli altri figli, le nuove altre gravidanze rappresentavano comunque una sorta di spinta obbligata ad andare avanti, anche perché la vita era più breve per tutti.

Oggi abbiamo scelto di ridurre il numero dei figli e alzare la qualità della loro vita a livelli impensabili, puntando su una iperprotezione assoluta che in teoria non contempla incidenti di sorta. Non è una critica, ci mancherebbe, ma un fatto, che tuttavia ha delle conseguenze che non possiamo ignorare: come ha ricordato un’inchiesta bellissima del New York Times, siamo diventati genitori iperansiosi, che vegliano costantemente sui propri figli, in maniera spesso un po’ ossessiva. Così loro diventano meno liberi, emotivamente più fragili, più nevrotici. Qui siamo lontani dallo spunto di cronaca ma è vero un fatto: se facciamo un investimento solo, ad esempio un solo figlio, non possiamo permetterci che gli accada qualcosa. Eppure qualcosa può sempre accadere. Dalla sofferenza non ci si può proteggere, che si abbiano uno, due o tre figli. Ma forse una riflessione – che nulla ha di moralista o di vicino al Family Day – su quanto ci metterebbe al riparo da un certo tipo di dolore assoluto avere più bambini – due, tre, quattro – si può fare. Perché, qualunque cosa possa succedere a uno di loro, avremmo sempre dei cuori e delle menti che ci tengono radicati al suolo, con la loro felice concretezza e la loro allegria, con i loro bisogni e le loro richieste, per i quali saremmo fortunatamente costretti a restare vivi.

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