La notizia è che un migrante su due che convive con l’Hiv non sarebbe stato contagiato nel proprio Paese d’origine, bensì nel Paese europeo meta della migrazione o nel corso del viaggio. È quanto emerso dal 31esimo convegno nazionale di Anlaids onlus, tenutosi a Genova in vista della Giornata mondiale sull’Aids. L’incidenza di nuove diagnosi di infezione da Hiv, pur se diminuita negli anni, è circa quattro volte più alta tra i migranti rispetto agli italiani e spesso riguarda le donne. È quanto emerso da uno studio condotto nell’ambito del progetto aMASE (advancing Migrant Access to health Services in Europe) in 57 strutture per il trattamento dell’Hiv di nove Paesi europei, tra cui l’Italia, su oltre 2200 migranti adulti con infezione, il cui scopo principale era quello di individuare il momento in cui questa popolazione – costretta per varie ragioni ad abbandonare il proprio Paese – ha contratto il retrovirus.

Nell’ambito dello studio clinico, sono stati raccolti dati tra luglio 2013 e luglio 2015 su circa 2mila migranti adulti diagnosticati con Hiv da almeno cinque anni e residenti nel Paese di accoglienza da almeno sei mesi, provenienti da Europa centrale e orientale per il 20%; dall’America Latina e Caraibi e dall’Africa sub-sahariana per il 65%. Tali soggetti vengono seguiti e trattati con farmaci antiretrovirali presso centri clinici di Belgio, Germania, Grecia, Italia, Olanda, Portogallo, Regno Unito, Spagna e Svezia.

Una ricerca difficile e complessa sotto tutti i punti di vista, sia organizzativi che scientifici. Mi viene da pensare che in molti casi la difficoltà principale per ottenere dei dati attendibili risieda nel non poter risalire al momento esatto dell’infezione, se non ricorrendo al dato unicamente anamnestico, cioè riferito dal soggetto nel questionario, non sempre corrispondente a un’obiettività assicurata. Sarebbe necessaria infatti una sieronegatività certificata precedente cronologicamente all’acquisizione dell’infezione. Con la prosecuzione dello studio e del follow-up si ovvierà senz’altro a questo.

Questo studio permette però di attestare la pericolosità e inumanità della migrazione di questa fetta di umanità, esposta al rischio di contrarre anche la letale infezione. E per questo solo fatto costituisce un’opera benedetta. Di particolare rilievo a tale proposito il dato che le donne che hanno sostato nei centri libici hanno un rischio di essere sieropositive circa quattro volte superiore alle altre. Certo la possibilità di avere un accesso a trattamenti realmente efficaci, quelli garantiti dai servizi sanitari nazionali dei Paesi di accoglienza, è per i migranti una speranza di conservarsi in vita indefinitamente e una buona notizia per noi cittadini Ue, di cui si avvantaggia tutta la collettività, poiché mantiene bassa la carica virale di ciascun individuo malato e azzera la possibilità che possano trasmettere l’infezione.

In considerazione di ciò bisogna però incrementare la sorveglianza per poter identificare i nuovi casi fra i migranti – e non solo – che hanno un’incidenza di nuove trasmissioni dell’infezione superiore rispetto agli europei, probabilmente per fenomeni legati alla mercificazione sessuale, e curarli adeguatamente e tempestivamente. In secondo luogo si devono potenziare e in molti casi riprendere le campagne informative destinate alla prevenzione dell’infezione da Hiv, che da parecchi anni sono state ridotte o addirittura abbandonate.

Articolo Precedente

Hiv, nel 2019 la seconda sperimentazione per vaccino terapeutico pediatrico

next
Articolo Successivo

Asteroide Bennu, conto alla rovescia per l’incontro con la sonda Osiris-Rex

next