In Veneto le autorità sanitarie minimizzano, dichiarano che sono molto ridotti i rischi derivanti dal batterio killer che potrebbe essersi insediato nei macchinari che hanno consentito l’installazione di valvole cardiache nei pazienti. Eppure, dopo sei morti accertate, una commissione tecnico-scientifica ha deciso che vanno allertate, se non addirittura richiamate, diecimila persone che tra il 2010 e la fine del 2017 hanno subito la sostituzione della valvola nei reparti di cardiochirurgia degli ospedali di Mestre, Padova, Vicenza e Treviso. Nei prossimi giorni sarà spedita a casa di ognuno di loro una nota informativa della Regione che spiega quali sono i sintomi provocati dal Mycobacterium Chimaera, un’infezione che in Veneto è già stata accertata in 16 casi (due dei quali provenienti da fuori regione). I sintomi sono costituiti da febbre, sudorazioni notturne e deperimento organico che si protraggono per più di due settimane e che non abbiano altre cause accertate. I pazienti sono invitati, in quel caso, a contattare le strutture sanitarie per essere presi in carico dai reparti di Malattie Infettive che si occuperanno degli esami microbiologici per effettuare le diagnosi.

La decisione è clamorosa, e fa seguito a un analogo provvedimento adottato in Emilia Romagna. A prenderla è stato un gruppo di lavoro istituito dalla Regione dopo l’insorgere delle infezioni a causa del batterio killer che si è annidato nei macchinari della LivaNova Deutschland GmbH per il riscaldamento o il raffreddamento del sangue di pazienti che sono stati operati a cuore aperto e mantenuti in circolazione extracorporea. Del caso si sta occupando una vera task force diretta dalla dottoressa Francesca Russo e di cui fanno parte i primari delle quattro Cardiochirurgie interessate, oltre che dai responsabili dei centri di Malattie infettive di Padova, Verona, Treviso, Vicenza e Mestre e dai direttori medici degli ospedali coinvolti.

“Abbiamo preso questa decisione in base al principio di massima precauzione” è la spiegazione. Eppure sono 10 mila le persone potenzialmente esposte al rischio. Il protocollo di intervento è stato condiviso anche con l’Emilia Romagna (altri 10mila pazienti), che ha accertato due vittime al Salus Hospital di Reggio e sta conducendo accertamenti su altre morti sospette avvenute nello stesso ospedale. Le linee guida elaborate dalle due Regioni saranno inviate al ministero della Salute, che le utilizzerà come prototipo. Salus Hospital precisa: “Attualmente sono stati presi in considerazione solo due casi. I pazienti cardiochirurgici coinvolti nell’indagine erano affetti da polipatologie e al momento non risultano ulteriori comunicazioni di casi accertati”.

La Regione Veneto ha dato da tempo direttive severe. “I macchinari presenti nelle cardiochirurgie di tutti gli ospedali veneti sono già stati messi in sicurezza e, in alcuni casi, sostituiti. Viene comunque data a tutti i reparti l’indicazione di collocare tali macchinari, di qualsiasi marca di fabbricazione essi siano, all’esterno della sala operatoria”. E punta il dito contro la ditta LivaNova: “Considerato che dati di letteratura hanno evidenziato che il Mycobacterium chimaera sembra essersi annidato già nel sito di produzione del dispositivi, quindi antecedentemente all’installazione in sala operatoria, la Regione Veneto si sta tutelando nei confronti della Ditta produttrice”.

La decisione di inviare la lettera ai diecimila pazienti è il frutto del lavoro degli ispettori mandati dall’area Sanità negli ospedali di Vicenza (4 decessi), Treviso e Padova (un decesso ciascuno) e Mestre. Gli ispettori assolvono le aziende sanitarie interessate, che non avrebbero responsabilità, in quanto “hanno fatto tutto ciò che la ditta produttrice ha consigliato per la pulizia e la sterilizzazione del dispositivo”. A giugno 2015 la LivaNova Deutschland GmbH inviò una e-mail al capo tecnico responsabile della manutenzione della tecnologia all’Usl di Vicenza, sollecitandolo ad intensificare i lavaggi della macchina con il perossido di idrogeno.

Tutto è partito proprio da Vicenza dove LivaNova aveva inviato per due volte alcuni tecnici per verificare i risultati della sanificazione, non riscontrando alcuna anomalia o presenza di batteri. Lo scorso anno l’Usl di Vicenza aveva però sottoposto ad analisi microbiologica il serbatotio dell’acqua del dispositivo. Lo aveva fatto seguendo anche le indicazioni lasciate da un anestesista che era rimasto vittima del batterio. E allora era stata fatta la scoperta che ha portato a bloccare l’uso degli apparecchi. L’invito a chi è stato operato dal 2010 in poi deriva dal fatto che il periodo di incubazione dell’infezione è lunghissimo, compreso in un arco di tempo che va dai 3 mesi ai 6 anni. Per questa infezione non esiste una terapia codificata e il tasso di mortalità è di circa il 50 per cento.

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