Se lo Stato soffre, a patire sono anche le società ad esso più strettamente collegate. La logica che sta alla base dell’ondata di declassamenti su aziende e banche italiane operata dall’agenzia di rating Moody’s è molto semplice. I tagli dei giudizi sono una mossa scontata che abitualmente segue i ritocchi al voto di uno Stato sovrano. La sforbiciata ha colpito 12 istituzioni finanziarie tra cui Intesa Sanpaolo, Mediobanca, Bnl, Cariparma, UnipolSai,  Banca Imi, Fca bank, Cassa Depositi e Prestiti, Banca del mezzogiorno ed Invitalia. Sono state parzialmente “graziate” Unicredit, per cui è stato solo rivisto l’outlook, ossia le prospettive, da positive a stabili, e Generali che conserva invariati i sui giudizi di rating. Ed altre 6 aziende quotate in cui lo Stato mantiene partecipazioni chiave. Quindi innanzitutto Poste Italiane, di cui ministero dell’Economia e il suo braccio finanziario Cassa Depositi e Prestiti detengono circa il 65%, poi Eni (controllata al 30% da Mef e Cdp), Snam (30% della Cdp), Terna (29% di Cdp), Italgas (26% di Cdp) ed Hera il cui capitale è in mano per circa la metà a vari enti pubblici.

Per le società con partecipazioni pubbliche dirette è facile capire che se le condizioni finanziarie dello Stato peggiorano, diminuisce anche la capacità di sostegno del socio pubblico. Per banche ed istituzioni finanziarie il discorso è più articolato. I legami degli istituti di credito  con lo Stato sono meno diretti ma spesso più profondi. Le banche italiane hanno in portafoglio titoli di Stato italiano per circa 370 miliardi di euro, se questi titoli si deprezzano, i patrimoni delle banche e le loro capacità di erogare credito si indeboliscono. La sola Intesa Sanpaolo ha in pancia Bot e Btp per 75 miliardi di euro, Unicredit altri 55 miliardi. In generale il voto sulle banche italiane rimane leggermente superiore rispetto a quello dello Stato. Soprattutto il giudizio sull’Italia si mantiene per ora sopra il livello “junk”, spartiacque tra investimenti considerati di natura speculativa e non.

Tuttavia più il rating scende, più costa alle banche farsi fornire liquidità dalla Banca centrale europea offrendo come garanzia  i nostri titoli di Stato. Non solo. Cercare di reperire soldi sul mercato attraverso l’emissione di obbligazioni diventa più costoso. Tant’è vero che da mesi banche ed aziende italiane hanno quasi rinunciato del tutto a questa forma di finanziamento poiché le condizioni sono troppo punitive. Questo proprio mentre banche in difficoltà come Mps e Carige sono alla disperata ricerca di risorse fresche per rafforzare il proprio capitale e si trovano a fronteggiare condizioni di mercato proibitive.  Se il mercato del credito peggiora, peggiora per tutti. Pesi massimi della nostra industria come Terna o Snam pagano oggi interessi sui loro bond superiori dallo 0,3 – 0,5% rispetto alla prima parte dell’anno. Diverse emissioni obbligazionarie già pianificate sono state congelate.  Il gruppo Fs ha in programma emissioni fino a 7 miliardi di euro ma la prima tranche da 650 milioni sarebbe ora in “stand by”.  Secondo dati di Dealogic diffusi a fine agosto, da maggio 2018 in poi le società industriali italiane hanno emesso bond per complessivi 3,5 miliardi di euro contro i 12,5 miliardi dello stesso periodo del 2017. La causa è il deterioramento delle condizioni di mercato, tendenza che la mossa di Moody’s non potrà fare altro che acuire.

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