di Claudia De Martino*

Negli ultimi anni la pratica delle adozioni risente di una forte battuta d’arresto in tutti i continenti del mondo, registrando un sonoro -72% e crollando da un picco di 42mila nel 2005 alle attuali 12mila annuali. Molti Paesi tradizionalmente “esportatori” di bambini (Congo, Vietnam, Federazione russa, Etiopia) si sono infatti ritirati dai protocolli che regolavano le adozioni internazionali per ragioni molto diversificate, che spaziano dal contrasto interno alla povertà, a un crescente nazionalismo (che individua nell’esportazione di minori nazionali un elemento di debolezza del sistema Paese), al boicottaggio di pratiche unilaterali che favoriscono sistematicamente il trasferimento di minori di Paesi poveri in Paesi occidentali ad alto reddito e in particolare verso gli Stati Uniti.

In questo scenario globalmente regressivo, non ci si aspetterebbe certo che un segnale in controtendenza si registrasse proprio in Medio Oriente, regione tradizionalmente avversa alle adozioni per ragioni tanto religiose che di conservatorismo culturale.

Nel mondo islamico ampiamente definito, infatti, è sempre stato in vigore l’istituto della kafala (letteralmente “fideiussione”), che sancisce il passaggio di un orfano dalla famiglia nucleare alla famiglia estesa (hamoula), in assenza di mezzi economici dei genitori per sostentare la famiglia o a seguito della morte di quest’ultimi. La kafala, dunque, per quanto diffusa, non si è mai trasformata in un’adozione legale, così come è intesa a livello internazionale, ovvero come pratica di inserimento di un minore in un nuovo nucleo familiare, con tutte le conseguenze legali del caso (cambio di cognome e rescissione del legame con la famiglia d’origine, iscrizione nel diritto ereditario del nuovo albero genealogico, eventuale cambio di nazionalità). Inoltre, la kafala è un istituto a tempo: al conseguimento della maggiore età da parte del minore, si estingue.

In un’area del mondo ossessionata dal principio di appartenenza etnica, identitaria e religiosa, e dove consuetudini religiose e tradizionali ataviche condizionano ancora pesantemente le scelte dei singoli (si pensi ai discendenti ebrei dei “Cohanim”, ovvero appartenenti a una casta sacerdotale con onori e obblighi propri, su cui per la legge ebraica pesano ancora severe limitazioni nella libertà di matrimonio), l’adozione è un istituto potenzialmente sovversivo, capace di scardinare le basi stesse della società. Non a caso, in Paesi sunniti moderati ma tradizionalisti come la Giordania, pur non essendo formalmente sanzionata, essa è sottoposta a requisiti stringenti come l’infertilità di coppia, in modo che non possa in alcun modo concorrere con la procreazione naturale.

Tuttavia, negli ultimi mesi è proprio in Medio Oriente che si coglie qualche segno di apertura e di inversione di tendenza. La Corte suprema israeliana ha aperto alle adozioni delle coppie omosessuali contro la volontà del governo, che invece aveva espresso voto negativo, ottenendo la revisione della legge alla Knesset e confermando Israele come il Paese più gay-friendly della regione. Ma anche negli Emirati Arabi Uniti, senza clamori, inizia a essere permesso alle donne single di adottare, purché soddisfino determinate condizioni di età (superiore a 30 anni) e di reddito, ed esse costituiscono già il 20% dei richiedenti.

È il caso dell’Egitto, però, a stupire di più e stagliarsi su tutti: fanalino di coda nel rispetto dei diritti umani (dopo Siria e Arabia Saudita) e soffocato da anni di repressione militare, il governo ha da poco (settembre 2018) adottato una legge che estende la possibilità di adottare bambini orfani anche a donne non sposate. Non si tratterebbe di una scelta di campo progressista, ma piuttosto di una conseguenza della crescente difficoltà governativa a far fronte economicamente alle esigenze dei circa 12mila orfani disseminati nei circa 450 istituti pubblici presenti nel Paese. Indipendentemente dalle ragioni, però, l’emendamento della legge sul “Sistema famiglia alternativo” in Egitto rappresenta una buona notizia: per la prima volta l’interesse economico dello Stato, quello superiore del minore, e la volontà di singoli adulti di emanciparsi dai legami di sangue e approdare a nuove e più aperte definizioni di famiglia, coincidono.

In un Paese arabo piagato da altissimi tassi di povertà (oltre il 27.5% tra gli adulti e il 29.5% tra i minori, secondo le stime Unicef 2017), gli orfani sono considerati oggetto di carità ed elemosina, ma socialmente stigmatizzati come “un peso” e bollati negativamente come “sporchi e peccatori” da un certo conservatorismo religioso. Essi, infatti, – tanto quanto altre categorie sociali sfavorite come i disabili fisici e mentali – sono considerati il frutto di un peccato esemplificato dalla loro nascita illegittima, la cui colpa ricadrebbe in parte su di loro: le conseguenze di questo superstizioso giudizio sociale sono spesso pesanti, non essendo loro possibile frequentare scuole d’eccellenza e università, concorrere per posizioni lavorative prestigiose e persino sposarsi al di fuori della propria categoria, quasi a costituire una casta sociale distinta e isolata dal resto della società. Una condizione di minorità rimarcata perfino nelle carte di identità in vigore fino al 2016 e, dunque, immediatamente visibile a tutti.

La nuova legge che disciplina le adozioni non segna una svolta radicale, ma un timido gesto nella direzione di un superamento delle barriere sociali, erette da secoli tra orfani e non, nelle società islamiche più conservatrici. E ben vengano le difficoltà economiche del governo a far avanzare la società egiziana, se il confronto delle idee è messo a tacere dalla repressione.

* ricercatrice ed esperta di questioni mediorientali

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