Negli ultimi mesi, la società civile egiziana si è trovata di fronte a un attacco senza precedenti. Decine di persone che fanno parte di Organizzazioni non governative sono state arrestate e incriminate per reati di terrorismo, si sono viste bloccare i conti bancari o hanno ricevuto il divieto di viaggiare all’estero.

L’inchiesta aperta nel 2011, dopo la caduta di Mubarak, nota come “Caso n. 173” sui finanziamenti esteri delle Ong, continua ad andare avanti. Nel frattempo, sono aumentate le pene: l’articolo 78 del codice penale prevede ora 25 anni di carcere per chi riceve denaro o materiale d’azione che potrebbe mettere a rischio gli interessi nazionali, minacciare l’integrità territoriale o recare disturbo alla quiete pubblica.

Ultimamente sono stati convocati per interrogatori rappresentanti e dirigenti del Centro Nazra per gli studi sul femminismo, della Rete araba d’informazione sui diritti umani, dell’Istituto del Cairo per gli studi sui diritti umani e dell’Istituto Andalus per gli studi sulla tolleranza e la non violenza.

Sono stati poi bloccati i conti bancari dei direttori o dei fondatori dell’Istituto del Cairo per gli studi sui diritti umani, della Rete araba d’informazione sui diritti umani, del Centro di studi legali Hisham Mubarak, dell’Iniziativa egiziana per i diritti della persona, del Centro egiziano per il diritto all’istruzione e dell’Istituto Andalus per gli studi sulla tolleranza e la non violenza (in quest’ultimo caso è stato bloccato anche il conto dell’organizzazione).

Da febbraio, inoltre, il governo sta cercando con pretestuosi motivi di far chiudere il Centro El Nadeem per la riabilitazione delle vittime della tortura, attivo dal 1993.

L’elenco dei difensori dei diritti umani cui è impedito di lasciare il Paese, con l’evidente intento di non permettere loro di raccontare all’estero cosa accade in Egitto, si allunga sempre di più: ora ne fanno parte Mohammed Zaree, direttore dell’Istituto del Cairo per gli studi sui diritti umani; Mohamed Lotfy, direttore della Commissione egiziana per i diritti e le libertà; Gamal Eid, direttore della Rete araba d’informazione sui diritti umani; e Hossam Bahgat, giornalista e fondatore dell’Iniziativa egiziana per i diritti della persona.

Infine, ci sono i difensori dei diritti umani arrestati e sotto inchiesta. Rischiano pesanti condanne per terrorismo e violazione della legge sulle manifestazioni del 2013.

Due di loro fanno parte della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, che fornisce consulenza legale agli avvocati della famiglia Regeni (a proposito, il 21 giugno sono trascorsi cinque mesi dalla sua scomparsa e la verità è ancora lontana): Ahmed Abdallah, prelevato dalla sua abitazione al Cairo il 25 aprile e attualmente in sciopero della fame, e Mina Thabet, arrestato il 19 maggio, attualmente libero su cauzione ma sempre formalmente incriminato. Recentemente, la Commissione egiziana per i diritti e le libertà ha reso noti i dati sulle sparizioni tra agosto 2015 e marzo 2016: almeno 540.

Il terzo difensore dei diritti umani sotto inchiesta è Malek Adly, avvocato del Centro egiziano per i diritti economici e sociali. Arrestato il 5 maggio, è detenuto in isolamento nella prigione di Tora in cattive condizioni di salute. Qui un appello per la sua scarcerazione.

Di fronte a questa situazione, la comunità internazionale è praticamente assente. Le speranze di salvare ciò che resta della società civile egiziana sono davvero scarse.

PS: domani è in programma l’ennesima udienza sul caso di Ibrahim Halawa. Il suo caso l’ho raccontato qui.

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