Scuola

Questione meridionale e universitaria, come ridurre il divario d’istruzione tra Nord e Sud

Da tempo, su questo blog e altrove, si è posto il problema del precariato universitario e della relativa visibilità.

Ieri, presso il rettorato dell’Università degli Studi Aldo Moro di Bari si è tenuto un incontro dal titolo “Sud dei Saperi”, organizzato da Cgil Puglia. Sono emersi dati e punti di vista su cui occorrerà riflettere seriamente, se si intendano costruire autentici percorsi di “inclusione”.

Alcuni interventi hanno mostrato piena consapevolezza dei gravi fenomeni in corso: dal “drain brain” dei giovani diplomati e laureati del Sud ai danni che questo fenomeno produce sulla già zoppicante economia del Mezzogiorno. Il segretario regionale di Flc-CGIL Claudio Menga ha citato uno studio Svimez di Gaetano Vecchione, che “ha stimato in circa 3 miliardi l’anno la perdita derivante dai mancati consumi privati e pubblici conseguenti alla migrazione intellettuale [in Italia] e in circa 2 miliardi l’anno la perdita secca in termini di spesa pubblica regionale investita in istruzione e non recuperata a causa della migrazione”. Per cui “la mobilità territoriale dei laureati meridionali, in buona misura è il frutto di una scelta obbligata dalle condizioni di arretratezza del mercato del lavoro del Sud d’Italia che è ad un tempo poco redditizio e poco propenso all’occupazione di figure professionali altamente qualificate”.

Più volte, su questo spazio, si è evidenziata la necessità di dare spazio a interventi per sostenere le Pmi innovative, con particolare riferimento al Sud, generando positive interazioni con università ed enti di ricerca. E puntando, in parallelo, a un inevitabile e concomitante incremento della produttività del lavoro (vedi qui e qui).

L’intervento del professor Gianfranco Viesti, autore del recente pamphlet La laurea negata (Ed. Laterza) ha poi rimarcato i drammatici meccanismi cumulativi di ridimensionamento del sistema universitario meridionale, perseguito scientemente non solo attraverso i tagli complessivi alla spesa per l’Università, ma anche attraverso i parametri adottati dall’Anvur che avrebbero richiesto un passaggio parlamentare che non c’è stato. I divari così ampliati saranno destinati prevedibilmente ad acuirsi, nei prossimi anni, per motivi demografici e per la accentuata mobilità studentesca e le dinamiche del mercato del lavoro. Resta allarmante il dato che vede nel Mezzogiorno la parte d’Europa con uno dei più bassi tassi di istruzione. Uno scenario che genera fenomeni di adattamento individuali e mancanza di una reazione collettiva.

Non è con l’improvvisazione, con zattere da naufragio, che si potranno salvare le carriere di migliaia di precari, oggi esclusi da qualsiasi prospettiva di medio-lungo termine; occorrono politiche nuove che riconoscano ai precari il ruolo da essi assunto nel mondo accademico, nell’attuale cornice normativa. Anzi, dalle relazioni di ieri è emersa la stringente necessità di por mano a un piano straordinario per il sistema universitario del Mezzogiorno.

Certo, le cose potrebbero anche peggiorare. Ieri si ventilava persino l’ipotesi che qualche riformatore di ispirazione criptoseparatista possa immaginarsi persino la regionalizzazione del Diritto allo studio, sancito dalla Costituzione. Ipotesi che fa rabbrividire se si pensa di ridurre anche lo studio alla stregua delle ferrovie o delle sanità di certe regioni, non solo meridionali. Per una volta la “paglietta”, certuni, farebbero bene a indossarla, onde evitare i colpi di sole.

L’ex rettore del Politecnico di Bari, Nicola Costantino, ha tracciato un aspetto significativo: l’evoluzione che ha portato le università a trasformarsi da “servizio pubblico essenziale” a “servizio di mercato”, cogliendo come le scelte ministeriali abbiano agito da moltiplicatori degli effetti negativi di mercato sul sistema universitario, impoverendo ulteriormente gli atenei già meno dotati, ma soprattutto sottraendo opportunità ai giovani e gravando sui bilanci delle famiglie.

Il nostro tempo richiede una rapida riflessione, per uscire dal vicolo cieco della consegna del sistema universitario alle logiche miopi e particolaristiche del mercato. Il segretario nazionale Flc-Cgil, Francesco Sinopoli, ha rimarcato la necessità di comprendere “il grado di ideologia che ha sotteso le scelte della politica universitaria degli ultimi anni”, guidata da cointeressenze e associazioni localizzate prevalentemente in alcuni territori del paese. Momento essenziale, in questo percorso, fu indubbiamente il 2008. Anno in cui si costruisce il taglio macroscopico di risorse nelle università, completamente scollegato da un’idea di sviluppo nel paese. Oggi si deve richiedere più etica e consapevolezza nella gestione delle risorse. Ho apprezzato le parole che hanno posto la persistente rilevanza della questione meridionale come principale questione nazionale, anche e soprattutto con riferimento alla questione della formazione e dell’università. Interessanti due ultime osservazioni di Sinopoli: per fermare il drenaggio di risorse materiali e immateriali, occorre intervenire a partire dal fondo ordinario anche per rendere attrattivi i territori con posti letto, borse di studio e di dottorato. E infine: “Non esiste nella storia un esempio di paese che abbia avuto capacità di crescere disinvestendo nella formazione”.