di Floro Ernesto Caroleo e Francesco Pastore

Negli ultimi anni, l’austerità imposta dall’Europa ha avuto effetti senz’altro negativi e talvolta contro-producenti. Fino al 2012, a crisi bella che esplosa, il Trattato di Maastricht ha continuato ad operare con quell’estrema rigidità propria del paradigma del Washington consensus che presupponeva, chissà perché, che stabilità monetaria e finanziaria fossero di per se capaci di condurre alla crescita economica. La stabilità stava bene all’Italia come ad altri Paesi europei nei primi anni Novanta poiché funzionava come uno strumento di disciplina fiscale e finanziaria per un Paese che con la prima Repubblica, dal 1970, aveva visto un’espansione del debito pubblico sostenuta, fino a superare il 120% del Pil. La prima repubblica non si scorda mai, canta Checco Zalone. Infatti, ancora paghiamo il conto.

Nei primi anni di applicazione, al Trattato dei banchieri si perdonava la sua “stupidità” poiché aveva spinto il Paese a ridurre il debito di diversi punti percentuali, giù fino al record del 100% dei periodi dei governi di Silvio Berlusconi e Romano Prodi (2001-2008).

L’ottusità del Trattato, però, era destinata a generare gli effetti disastrosi attesi da alcuni con l’avvento della crisi economica e finanziaria nel 2009. Ma perché era così stupido il Trattato? Lo era per tanti motivi, ma soprattutto perché non teneva conto del ciclo economico e quindi non spingeva a mettere fieno in cascina con avanzi di bilancio quando il ciclo era positivo e a tirare fuori la biada con l’esplodere della crisi. Inoltre, si chiedeva di ridurre il debito, ma si consentiva un deficit continuo intorno al 3%. Per definizione, negava il ruolo delle politiche keynesiane, ma consentiva deficit persistenti.

Il debito tornò ad aumentare nel 2009 sia per la crisi sia perché Giulio Tremonti pensò bene di poterne venir fuori con un aumento vertiginoso del debito. L’aumento era anche inefficace poiché si aumentò la componente che ha minore incidenza sulla crescita del Pil (detassazione della proprietà, spesa corrente).

Inoltre, quando Mario Monti venne a “salvare la patria” dalla bancarotta cui la stava portando il governo di centrodestra, impose una tale e così drastica austerità da causare una recessione come egli stesso ha ammesso.

Una delle conseguenze negative e impreviste dell’austerità europea è stata la tendenza a ridurre la componente della spesa in conto capitale che dà luogo agli investimenti. Uno dei motivi è che questa componente è anche quella più facilmente controllabile nel breve periodo, quando si vuole far cassa. Infatti, occorrono riforme strutturali per ridurre la spesa per retribuzioni, acquisti della Pa e contributi sociali (pensioni ed assistenza). Le riforme pensionistiche, ad esempio, non hanno un effetto immediato, in parte per renderle più facili da accettare, in parte perché richiedono tempo per produrre effetti. La spesa per acquisti della Pa è anche difficile da ridurre e controllare. La spesa in assistenza serve per alleviare gli effetti sociali della crisi.

È più facile, allora, ridurre la spesa in conto capitale ed, infatti, questa componente si è ridotta in modo significativo, pur essendo già ai minimi termini, passando dal 5.3% nel 2001 al 4.2% nel 2015. La riduzione è più forte nel Mezzogiorno, ma anche nel centro-nord, soprattutto a partire dal 2009.

La riduzione della spesa in conto capitale è avvenuta nel Mezzogiorno, prima di tutto, annullando i Fondi Fas (per le aree sottoutilizzate) e spostandoli sulla spesa ordinaria di tutto il Paese e poi riducendo anche la componente totale della spesa in conto capitale per il Mezzogiorno ben al di sotto del 34% che la popolazione meridionale rappresenta sul totale italiano. Nel 2012, la spesa in conto capitale del Sud è stata appena il 19.1% del totale. Ha fatto bene l’ex Ministro Claudio De Vincenti ad ancorarla al 34% nel 2016.

Le conseguenze sul divario infrastrutturale del Mezzogiorno, che pure ha radici antiche, sono evidenti. Non c’è la Tav né sulla dorsale Tirrenica, né su quella adriatica, né fra le due dorsali. Occorrono aeroporti di maggiori dimensioni vicino alle principali città del Mezzogiorno. Occorre favorire la ricerca e l’innovazione sia di base che nelle imprese. Gli investimenti infrastrutturali per il turismo avrebbero effetti immediati sulla crescita.

La “recessione da austerità” causata da Monti è stata un argomento importante per convincere le autorità europee a concedere “flessibilità” nell’uso della leva della spesa pubblica. La flessibilità, che doveva ridurre l’ottusità del Trattato di Maastricht, è prevista in quattro casi:

a) per una recessione;

b) per incentivare gli investimenti, soprattutto per il piano Junker;

c) per accompagnare riforme strutturali;

d) per far fronte a crisi sistemiche dell’Eurozona.

Senza andare troppo nel dettaglio, la flessibilità consiste nel non computare nel calcolo del deficit la spesa per investimenti.

Nulla di specifico è stato però previsto a favore del Mezzogiorno e delle altre aree dell’intervento strutturale, anche se le aree valutarie tendono per loro natura ad approfondire i divari territoriali. Credo che sarebbe del tutto accettabile, se non auspicabile chiedere alle autorità europee di introdurre un quinto caso di flessibilità a favore delle aree dell’intervento strutturale. Si potrebbe consentire, così, la ricostituzione dei Fondi Fas unicamente per la realizzazione di spesa in conto capitale ed investimenti per il raggiungimento di obiettivi di infrastrutturazione basilare del Mezzogiorno, al fine di favorire il catching up che pure sembra essere ripreso negli ultimi tre anni, come già notato in un articolo precedente.

Riceviamo e pubblichiamo la seguente replica 

Ho letto su Ilfattoquotidiano.it l’articolo di Floro Ernesto Caroleo e Francesco Pastore pubblicato il 23 giugno sotto il titolo: “Chiediamo all’Europa più flessibilità per il Mezzogiorno”. Nell’articolo è scritto tra l’altro quanto segue: “Il debito tornò ad aumentare nel 2009 sia per la crisi sia perché Giulio Tremonti pensò bene di poterne venir fuori con un aumento vertiginoso del debito”. Ho qualche difficoltà a concordare con quanto sopra. La migliore risposta si trova comunque nelle «Considerazioni finali» dette dal Governatore Mario Draghi il 31 maggio 2011: «In Italia il disavanzo pubblico, prossimo quest’anno al 4 per cento del pil, è inferiore a quello medio dell’area euro… Appropriati sono l’obiettivo di pareggio di bilancio nel 2014… Grazie a una prudente gestione della spesa durante la crisi, lo sforzo che ci è richiesto è minore che in altri Paesi avanzati». Non ho altro da aggiungere. Con i miei migliori saluti, Giulio Tremonti

Risposta degli autori

Non possiamo che ribadire quanto abbiamo scritto: nel solo 2009 (anno in cui il Prof. Tremonti aveva l’incarico di Ministro dell’economa e delle finanze), il debito pubblico ha avuto un aumento dell’11% circa del Pil pari a svariate decine di miliardi. Nel periodo dal 2008 al 2011 il debito pubblico che era stato ridotto al 102.4% del Pil dal governo precedente aveva superato la ragguardevole cifra del 116.5% del Pil, tornando pressappoco là dove lo avevano portato i governi della cosiddetta Prima Repubblica. Il valore assoluto del debito è aumentato di circa 236 mld fino al 2011 e di 318 mld fino al 2012.

La nostra tesi, tra l’altro senza nessun giudizio di valore, è che questo aumento non è dovuto solo alla crisi ma anche ad una politica fiscale ben precisa che ha inteso, per motivi essenzialmente elettorali, scaricare sul debito una serie di interventi che, in mancanza di entrate, hanno fatto aumentare il debito, quali diversi condoni e provvedimenti di detassazione della proprietà che hanno frenato la domanda interna e rallentato ulteriormente la crescita del Pil, anziché favorirla.

Tuttavia, ciò detto, non vorremmo alimentare una polemica stucchevole. Ci dispiace solo che il Prof. Tremonti, che ringraziamo per aver avuto la bontà di leggerci, non abbia inteso commentare la tesi di fondo del nostro articolo è cioè che sia necessario in Italia fare una politica fiscale volta agli investimenti e in special modo al Mezzogiorno.

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