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Architetto a Parigi. “Emigrato come i miei nonni. Lo stipendio? Più del doppio rispetto all’Italia”

Francesco Loconte ha 34 anni e da sette si è trasferito in Francia. In Italia lavorava a partita Iva, che nel suo caso era fare il libero professionista mascherato da dipendente. In più, dice, "i concorsi vengono vinti dall’amico del sindaco e che fare il geometra sarebbe stata l’unica via per l’indipendenza economica". E così nella capitale francese ha trovato la sua realizzazione
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Non è difficile sentir parlare italiano mentre si passeggia tra i boulevard di Parigi. Spesso sono turisti con gli smartphone a mezz’aria, pronti a catturare momenti e monumenti, ma spesso sono giovani italiani in cerca di migliori opportunità di lavoro. Questi italiens sono diversi dai ritals del secondo dopoguerra, gli operai che emigravano in cerca di fortuna. I nuovi emigrati sono preparati, formati, specializzati. Tra loro c’è anche Francesco Loconte, 34enne pugliese e architetto. È in Francia da sette anni ed è emigrato Oltralpe come i suoi nonni. “Sono emigrati negli anni Cinquanta per poi rientrare in Italia solo un anno prima della mia nascita. Il pensiero che a distanza di anni io possa seguire le orme di mio nonno, mi fa sentire in pace con me stesso. Lui era un rital che si guadagnava la vita sudando in fabbrica ed è anche grazie a quel sudore che oggi posso permettermi di vivere facendo ciò che amo”.

Francesco è uno dei tanti architetti italiani in Francia: secondo i dati raccolti dal Cnoa (Conseil National de l’Ordre des Architectes), quella italiana è la comunità straniera più numerosa. Il 28% degli architetti stranieri a Parigi è italiano. E la tendenza non sembra arrestarsi. Cosa manca all’Italia secondo Francesco? Libertà di espressione e creatività. “In un paese come l’Italia sono rari i casi in cui i creativi riescano a costruire la propria autonomia sotto i trent’anni”. La sua storia presso “la facoltà di Ingegneria Edile – Architettura al Politecnico di Milano, con una parentesi a Madrid nel 2009 per l’anno di Erasmus. Nel 2010 ho fatto il master in Architettura bioecologica e tecniche sostenibili per l’Ambiente alla Sapienza, grazie a una borsa di studio europea”.

Terminati master e università, Francesco inizia a lavorare con partita Iva. Che nel suo caso significa fare il libero professionista mascherato da dipendente: “Ho capito presto che in Italia, dove mobbing e pigrizia sono diffusi trasversalmente, se vuoi fare l’architetto devi essere un buon dipendente, che i concorsi di idee vengono vinti dall’amico del sindaco e che fare il geometra sarebbe stata l’unica via per l’indipendenza economica. Ho visto questo fatalismo trasformarsi in alibi nella testa di molti miei coetanei, ma credo che esprimere il proprio talento sia dovere morale del creativo”. Le differenze tra Francia e Italia per Francesco sono tante. “In Francia l’architetto ha l’esclusività nella progettazione architettonica, mentre in Italia siamo arrivati al punto in cui l’architetto è un lusso per pochi e il geometra ha le stesse competenze in materia di progettazione architettonica. Non voglio denigrare il lavoro dei geometri, ma rifletterei sul fatto che anni di studio delle metodologie della progettazione, in qualche modo, possano portare un valore aggiunto nel momento in cui costruiamo le nostre città”.

Finito il periodo da libero professionista in Italia, Francesco decide quindi di spostarsi a Parigi. All’inizio non è facile, soprattutto a causa della lingua, ma si presenta un’opportunità: “Quattro mesi dopo il mio trasferimento ho trovato un posto in uno studio di un ex capo progetto di Jean Nouvel, un’esperienza che mi ha permesso di imparare il francese e di interfacciarmi col mondo del lavoro in Francia”. Dove “un architetto alla prima esperienza non guadagna meno di 1600 euro. Cioè più del doppio rispetto all’Italia”.

Il lavoro inizia a decollare e nel tempo libero Francesco partecipa a concorsi assieme ai colleghi. Con ottimi risultati: “Nel 2012 ho vinto un bando per l’estensione di una villa in Belgio e firmato il mio primo contratto. Nello stesso anno, insieme a un collega architetto ed un amico artista italiano, ho fondato il collettivo Kid-A, che sta per ‘bambino architetto’. Lì possiamo coltivare indipendenza e momenti di anarchia creativa. Lavoriamo su diversi livelli di progetto, dal design di interni all’architettura su più ampia scala”. Il ritorno in Italia non è escluso ma, al momento, all’orizzonte tutte le strade restano aperte. “Perché non posso nemmeno scartare l’ipotesi di trasferirmi in un altro Paese, che non sia né ItaliaFrancia“.

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