Non è raro ascoltare affermazioni quali: “i media si limitano a raccontare la realtà” o specularmente “i media falsificano la realtà” o ancora “i media sono solo uno strumento, dipende come li si usa”. Una delle principali ragioni del successo di Black Mirror, è proprio quella di aver saputo rappresentare in modo efficace la natura profondamente ambigua del rapporto tra uomo e tecnologia.

Internet ad esempio, è ancora un mezzo nelle nostre mani, o è piuttosto un mondo nel quale ci immergiamo? Smartphone e tablet sono semplicemente strumenti a nostra disposizione? Nell’età della tecnica (ovvero lo scenario che abitiamo oggi) l’aumento quantitativo degli strumenti tecnologici ha radicalmente modificato la qualità del nostro modo di fare esperienza del mondo. Per ragionare in modo costruttivo su queste tematiche, occorrerebbe oggi più che mai, fare finalmente riferimento a categorie di pensiero adeguate. Le riflessioni qui accennate, si basano su tematiche portanti della letteratura filosofica e sociale del Novecento (Heidegger, McLuhan, Habermas, ecc).

Riguardo al fatto che i media si limitino a raccontare il mondo e la realtà:
a) Il primo problema è di ordine quantitativo, nel senso che prima di tutto i media ci informano solo di una parte di mondo e di realtà. Quale, è ovviamente tutto da vedere. Che ciò avvenga per ragioni occulte o meno, sta di fatto che se una notizia non ci viene data, quella parte di mondo per noi, semplicemente non esiste. Su internet c’è tutto, obietterà qualcuno, ma come cercare qualcosa di cui non si è mai sentito parlare? In questo cono d’ombra, non finiscono purtroppo solo notizie scomode o piccoli scandali, ma anche questioni epocali quali ad esempio alcune delle più grandi stragi mai compiute dall’uomo.

b) A questo problema, ne segue uno di ordine qualitativo, nel senso che i media, offrendoci una messa in scena del mondo e dei suoi eventi, finiscono con l’avere come effetto principale quello di esoneraci del fare esperienza diretta del mondo, dandoci però al contempo, la pericolosa illusione di averne invece preso parte con piena consapevolezza. La questione non è l’essere informati, ma gli effetti della modalità in cui ciò avviene. Analogamente a quanto accade nei social network, il problema non è l’avere degli amici virtuali, quanto il fatto che, appagati da questi surrogati, dimentichiamo che l’amicizia è ben altro. Se a questo problema aggiungiamo il fatto di essere messi quotidianamente di fronte a problemi infinitamente grandi (e spesso irrisolvibili) la nostra psiche non può che reagire passando dall’apatia (“lo so, ma che ci posso fare?”) o all’atarassia (“ormai mi ci sono abituato”).

Quanto al fatto che i media falsifichino la realtà:
a) In questo scenario, l’idea che i media falsifichino la realtà dovrebbe lasciare il posto a quella che essi, più semplicemente, la determinino. Se è vero che ciò che ci in-forma, ci codifica al contempo, ne deriva che le categorie di interpretazione del mondo che i media ci inculcano quotidianamente, finiscono col diventare sia il nostro principale criterio di interpretazione della realtà, sia il modello di riferimento con cui giudichiamo ed agiamo nel mondo reale. Il paradosso quindi, è che i media, in-formandoci, plasmano direttamente la realtà.

b) Inoltre, la relazione tra media e pubblico si articola oggi in modo che chi ascolta, sente le stesse cose che potrebbe dire egli stesso, e chi parla, dice le stesse cose che potrebbe ascoltare da chiunque. L’effetto finale di questo grande mantra collettivo, è il collasso dell’esperienza della comunicazione, in quanto essendo del tutto neutralizzata la differenza tra le varie esperienze dirette che gli individui fanno del mondo, viene meno anche la fisiologica necessità di comunicarsele a vicenda.

Circa la presunta neutralità dello strumento media:
a) Indipendentemente dall’uso che siamo convinti di farne, se i media influenzano strutturalmente la nostra modalità di fare esperienza del mondo (in-formandoci e codificando i nostri giudizi e comportamenti nel mondo reale) dovremmo assolutamente rivedere questa idea di considerarli dei mezzi nelle nostre mani, a meno ovviamente, di non stravolgere totalmente il significato stesso della parola mezzo.

b) Sostenere infatti che smartphone e tablet siano strumenti al pari un coltello (da cui il famoso “dipende che uso ne fai”) è una pericolosa ingenuità. I mezzi esistono in funzione di fini liberamente scelti dalle persone che li adoperano, finalità a cui i mezzi, servono appunto a mediare. Un coltello media a un fine che noi gli attribuiamo liberamente: tagliare una mela, o uccidere. Ma gli strumenti tecnologici odierni non possono essere considerati semplici mezzi in quanto: 1) modificano la nostra percezione del mondo determinando i nostri comportamenti e 2) smartphone e tablet non medierebbero alcunché se non fossero interconnessi ad altri dispositivi sparsi per il globo. In tal senso, la loro esistenza è giustificata esclusivamente dall’essere interconnessi con altri apparecchi simili. Come in un grande marchingegno, ogni dispositivo digitale ha senso solo come parte di quel mega ingranaggio globale che, molto opportunamente, chiamiamp rete.

E se quindi internet è un mondo (world, wide, web, recita la preghiera quotidiana) come possiamo continuare a considerarlo un mezzo nelle nostre mani? Un mondo è una cosa profondamente diversa da un mezzo. Un mondo non concede la scelta di come usarlo, ci offre solo l’opportunità di prenderne parte, oppure no.

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