di Francesco Balucani

“Questo non è un posto per persone ordinarie. È un posto per sognatori”. Non sono le parole di qualche guru della Silicon Valley, ma del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, nominato successore al trono da re Salman lo scorso giugno in sostituzione del nipote Mohammed bin Nayef. Il giovane principe, trentadue anni lo scorso agosto, sembrerebbe dar voce a quanti desiderano con malcelata veemenza uno strappo generazionale che trascini l’Arabia Saudita verso nuovi orizzonti. Il 70% della popolazione ha meno di trent’anni e i tempi sembrano maturi perché qualcosa accada. Le prospettive occupazionali sono poche e le donne, che rappresentano la metà di questa fremente congerie, pretendono maggiori diritti civili.

Il pensiero e la solerzia dell’erede al trono saudita sono condensate nella sua Saudi Vision 2030, un’agenda politica di lungo termine che servirà da faro per la rivoluzione che pare attendere il Paese. Sul versante sociale e socioculturale, i fondamenti su cui si adagerà la struttura valoriale della nuova Arabia saranno “la moderazione, la tolleranza, l’eccellenza, la disciplina, l’equità e la trasparenza”. La stipula di questo nuovo patto sociale avrà inizio con la rilettura degli Hadith, gli aneddoti, che compongono la Sunna del profeta Mohamed e con l’abrogazione di ogni rimando all’estremismo religioso, forse nel tentativo di alterare gli equilibri di potere che legano la casa reale agli ulema, i teologi custodi del wahabismo.

Mohammed bin Salman sostiene di voler riportare l’Arabia Saudita ai fasti di un tempo passato, ma pare piuttosto che egli intenda trascinare l’Islam nel futuro, raschiando via gli eccessi e levigandone le forme per renderlo compatibile con la modernità.

Sul versante economico, Mohammed bin Salman sembra muoversi in direzione di politiche a forte connotazione liberale: smantellamento di monopoli e oligopoli, diversificazione e ampliamento delle attività produttive, apertura del mercato a investitori esteri, deregolamentazioni nel mercato energetico, ristrutturazione delle economie urbane, creazione di  Zone economiche speciali (Zes), liberalizzazione degli scambi, semplificazioni burocratiche, accesso al credito e criteri di selezioni meritocratici.

Sul piano strategico-militare, Mohammed bin Salman punta a ridimensionare la presenza sciita in tutto il quadrante mediorientale. C’è lui dietro la crisi con il Qatar ed è lui l’artefice della campagna militare nello Yemen contro i ribelli houthi sostenuti dall’Iran. Lo scorso 4 novembre, le autorità saudite hanno spinto Saad Hariri, primo ministro libanese, a dimettersi, per poi scaricare la responsabilità sulle milizie sciite di Hezbollah. Le relazioni con Teheran si stanno rapidamente deteriorando e pare che in questo oscuro gioco machiavellico abbiano un ruolo rilevante sia gli Stati Uniti che Israele.

Donald Trump e Benjamin Netanyahu vedono di buon occhio l’operato del giovane Mohamed bin Salman. I tre condividono l’astio nei confronti dell’Iran e non è un’ipotesi da scartare quella di un’alleanza segreta per contenere l’influenza sciita in Medio Oriente.

In questi mesi, Mohammed bin Salman sta cercando di raccogliere fondi per finanziare la sua agenda politica, e ciò che lascia sgomenti, oltre alla portata degli stanziamenti sollecitati, sono le soluzioni adottate per ottenerli. Alcuni esempi: nella seconda metà del 2018, la compagnia petrolifera saudita Aramco verrà quotata in borsa con l’offerta pubblica iniziale (Ipo) più alta della storia, un’operazione da 100 miliardi di dollari.

In seconda battuta, la “purga” – come l’ha definita il Guardian – promossa dall’erede al trono, mascherata da campagna anticorruzione e segretamente avallata dal re, con sentirà a Mohammed bin Salman di decostruire le fortune personali delle figure più prominenti del Paese, miliardari che vantano legami con ogni segmento dell’economia nazionale e che fino a pochi mesi fa erano considerate personalità intoccabili. Alcuni dei principi attualmente detenuti nelle carceri saudite hanno promesso il 70% delle loro ricchezze personali in cambio della libertà, e tutto lascia presagire che un accordo possa essere negoziato con relativa facilità. 1.700 conti bancari sono già stati congelati e le autorità affermano che la lotta alla corruzione possa fruttare all’erario altri 100 miliardi di dollari.

Oltre a capitalizzare, Mohammed bin Salman otterrà un altro grande vantaggio da queste riforme: l’esclusione o l’estromissione di ogni oppositore politico e di ogni altro contendente al trono. Il principe ha bisogno di potere politico, autonomia decisionale e risorse illimitate per dare forma ai suoi proponimenti.

Molti autorevoli commentatori hanno evidenziato le contraddizioni che parrebbero scaturire dalla mente del giovane principe: la sua tensione verso la modernità, da una parte, e la campagna di persecuzioni, antidemocratica e lesiva dei diritti umani, promossa per favorirne l’ascesa, dall’altra. Ma questa strategia è tutto fuorché contraddittoria. Assomiglia, piuttosto, alla tradizionale inclinazione del nazionalismo eccezionalità a vocazione messianica (come direbbe Mario del Pero) degli Stati Uniti d’America, che fa sua una massima troppo spesso ignorata dagli analisti: il fine giustifica i mezzi.

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