Scelsi molto presto, fin da ragazzo, di voler fare il professore. Oltre alla passione per lo studio e la voglia di restare in qualche modo sui libri, c’era che non mi sentivo adatto al lavoro autonomo e quello dell’insegnante mi pareva il più indipendente tra i lavori dipendenti. Sopra di te hai solo il preside, che in fin dei conti non è altro che un collega. Così si diceva, prima che facesse breccia l’idea del Direttore scolastico (Ds) manager. Poi è successo che i vice-presidi, oggi detti “collaboratori della dirigenza”, hanno aumentato di molto le proprie funzioni nel frequente caso dei Ds “reggenti” e sono aumentate le competenze del segretario, oggi assurto a Direttori dei Servizi generali e amministrativi (Dsga).

Finendo a insegnare in carcere, la subordinazione si estende verso altre figure. Ancor più che alle autorità scolastiche, spesso lontane o addirittura assenti, si deve continuamente render conto del proprio lavoro alla Direzione e all’Area educativa del carcere, che ha un educatore espressamente incaricato per l’istruzione in carcere. Discorso a parte va fatto per la Polizia penitenziaria, laddove ci si deve relazionare (incontrando quasi sempre grande disponibilità e spirito di collaborazione, va detto) non solo col Comandante ma anche con i suoi ispettori, assistenti e, in taluni casi concreti, con ogni singolo agente che ha il potere di permettere o non permettere una determinata attività o un certo passaggio (ma qui finiamo in un discorso di destrutturazione del potere e delle relative responsabilità che meriterebbe una approfondita trattazione a parte).

In sostanza, dipendiamo da due ministeri (Istruzione e Giustizia, ai quali, in alcune sezioni particolari, si aggiunge il ministero dell’Interno) con tutte le relative sotto-diramazioni. E lavoriamo senza il supporto di tutto il personale amministrativo, tecnico, ausiliario (Ata) a disposizione degli istituti scolastici, dovendo sbrigare tutte le pratiche con i nostri mezzi, con la nostra dedizione, con il volontariato. Senza libri, che neppure i rappresentanti delle case editrici vogliono regalarci (sapendo che i nostri alunni non hanno i soldi per acquistarli), provvediamo noi a fare fotocopie, talvolta a nostre spese, su dispense autoprodotte.

Nonostante tutto ciò, il lavoro all’interno del carcere è a dir poco stimolante, soprattutto per chi come me insegna discipline giuridiche. Non ho mai voluto, né dovuto informarmi sui casi giudiziari dei miei studenti; vuoi o non vuoi, prima o poi, i fascicoli e le istanze personali passano per le mie mani e diventano casi pratici di studio per approfondite lezioni in classe.

Il fatto è che, trattandosi di persone con limitati diritti di libertà e di comunicazione con l’esterno, si è sempre sul punto di essere coinvolti in una congerie di storie, rapporti familiari, dinamiche lavorative, cambi di vita. L’insegnante, se non ha la capacità di porre dei limiti e ricondursi fermamente all’interno delle proprie mansioni, rischia di scivolare in improbabili ruoli di avvocato, consulente, confessore, amico, paladino, medico.

A parte questo, le difficoltà che si incontrano nascono tutte fuori classe. Estenuanti collegi docenti, spesso bloccati su pagellini, pentamestri, adozione libri, tempi dei colloqui con i genitori. Quanto di più lontano dalla specificità dell’insegnamento in carcere (diverso anche dalla scuola per adulti). E ancora: consigli di classe, riunioni per materie, scrutini, il tutto affrontato con la riserva mentale del tipo di “utenza” con cui abbiamo a che fare e che nessuna direttiva ministeriale accenna di voler compiutamente prendere in considerazione. Lavori che finiscono per bloccarsi a causa di docenti invecchiati, demotivati, bistrattati da tutti i lati.

Alla fine, il momento migliore è proprio quello svolto in classe, in quelle 18 ore settimanali che potrebbero sembrar poche a tutti coloro che non sanno come ci si senta esposti, sguarniti (in quanto molto coinvolti), mettendosi in discussione davanti agli studenti, a maggior ragione trattandosi di adulti.

(Continua…)

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