Fissare dei livelli sanitari comuni per i Paesi dell’Unione Europea? “Mi chiedo se dopo la Brexit e i timori per la diffusione di sentimenti antieuropeisti sia il momento giusto: un’offerta sanitaria omogenea implicherebbe un’integrazione fiscale. Di certo è auspicabile una sanità più equa, ma si tratta innanzitutto di una scelta politica”. Per Francisco H. G. Ferreira, Senior Adviser del Development Research Group della Banca Mondiale, dove è responsabile dei programmi di ricerca su povertà e disuguaglianze, la situazione del Vecchio Continente è piuttosto delicata anche in tema di salute e di disuguaglianze. Intervistato da ilfattoquotidiano.it, ha tracciato il suo scenario personale delle sfide della sanità con un focus particolare sull’Europa. Che su questo tema dovrebbe riflettere più attentamente, se ai suoi governanti stanno a cuore i potenziali rischi di instabilità politica generati dalle disuguaglianze.

“Il mercato della salute non è affatto un mercato come gli altri per almeno due ragioni – ha spiegato a margine del Festival dell’economia di Trento, dove si è occupato dell’eredità lasciata dal padre delle teorie contro le disuguaglianze Tony Atkinson – La prima è che la salute è un diritto che non può essere completamente lasciato nelle mani di privati per realizzare fatturato. La seconda ragione è che si tratta di un mercato caratterizzato da una molteplicità di asimmetrie informative. Il venditore e l’acquirente – cioè il paziente e il medico – non hanno le stesse conoscenze. Con l’aggravante che il dottore è anche colui che deve vendere il trattamento ed è in potenziale conflitto di interessi. Sullo sfondo c’è poi anche un terzo attore: le assicurazioni. Per queste ragioni, è davvero complesso regolamentare il mercato della salute”.

In compenso però il lavoro di definizione delle regole può partire da particolari misurazioni di efficienza che aiutino i governi ad orientare le loro politiche nell’interesse dei cittadini. Quali? “Innanzitutto longevità o il suo contraltare cioè la mortalità – prosegue lo studioso – Ma ci sono anche altri strumenti: come ad esempio lo stato di salute della popolazione, i trattamenti effettuati, la comparazione di costi dei sistemi fra Stati. Sono tutti strumenti che consentono di valutare un sistema. Ci sono poi anche dei parametri più specifici su singole malattie. La Banca Mondiale ha ad esempio dati sulla diffusione della malaria, statistiche demografiche e misurazioni che consentono di valutare singoli interventi”.

Detto questo, il tema centrale restano i vincoli di bilancio dei diversi Stati. Solo loro che impongono alla politica di fare delle scelte che incidono sul benessere della collettività attraverso le stesse caratteristiche di base e la stessa offerta del servizio sanitario. In queste scelte, come puntualizza Ferreira, “il profilo economico si intreccia con le differenze socio economiche e demografiche, non garantendo equità”. Per questa ragione il ricercatore ritiene che la soluzione migliore per la sanità di uno Stato sia un sistema “ibrido”, dove il pubblico deve offrire un pacchetto minimo di servizi sanitari. “Non è certamente il modello statunitense. Credo possa diventare un modello universale per la sanità”, chiarisce. Il problema è poi definire cosa inserire nel pacchetto di base e come offrire i servizi a tutti: “Ci sono trattamenti, anche diagnostici, che sono molto costosi. Come si possono offrire a tutti? Non c’è una sola risposta a questa domanda. Ogni società risponde in maniera diversa. Il rischio è però che si accentuino le disuguaglianze”, ammonisce l’economista. Se infatti nell’offerta di base, Ferreira vede la possibilità di introdurre servizi sanitari per bambini e donne incinta o trattamenti antitubercolosi o antimalarici per le zone più povere del mondo, ipotizza poi “un’integrazione del privato per i trattamenti più costosi come ad esempio quelli cardiovascolari”.

Resta il rischio che le disuguaglianze crescano, soprattutto nei Paesi meno ricchi dove buona parte della politica sanitaria nazionale viene delegata a privati, Ong e charities che “sono meglio di niente” in nazioni dove “l’offerta sanitaria è molto debole”. Anche in questo caso comunque Ferreira crede “sia importante che privato e pubblico lavorino insieme per definire la giusta combinazione di un nuovo sistema in cui il privato integri l’offerta pubblica”. Si tratta di un modus operandi che vale per tutti a livello globale e che è alla base di un contratto sociale capace di garantire stabilità politica. In alcuni Paesi emergenti “ci sono stati dei miglioramenti con la nascita e lo sviluppo di una classe borghese che ha tentato di rinegoziare il patto sociale con i vari governi e avere in cambio più servizi. E’ accaduto fino a qualche anno fa in Brasile e in Argentina. Poi la recessione ha nuovamente cambiato le carte in tavola, creando maggiore instabilità anche sotto il profilo politico – conclude – In Europa però siamo nella situazione inversa: la crisi sta impoverendo la classe media che finora ha avuto un contratto sociale forte. Inoltre i governi sono sovraindebitati e alle prese con i tagli”. Il suggerimento per il Vecchio continente è “ritrovare un circuito positivo altrimenti nella spirale negativa di ridimensionamento della classe media e revisione – al ribasso – del contratto sociale, non si fa altro che andare verso un aumento delle disuguaglianze. Un fatto che inevitabilmente porta anche ad una maggiore instabilità politica”.

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