Ricordo come fosse ieri il momento in cui, all’inizio del 2011, il mio coautore Gabriele Strazio e io leggemmo la bozza di prefazione che Stefano Rodotà aveva preparato per il nostro libro L’abominevole diritto. Gay e lesbiche, giudici e legislatori. Ci fu una breve telefonata tra di noi, in cui ci scambiammo un cenno di sorpresa e approvazione. Sorpresa per la bellezza della bozza, approvazione perché l’allievo non può certo correggere il maestro.

Rodotà era un Maestro, con la M maiuscola. Aveva un bagaglio sterminato di conoscenze, come solo professori della sua generazione possono avere. Eppure, quando parlava nelle trasmissioni televisive e scriveva negli articoli dei quotidiani e persino nei suoi libri, sapeva raggiungere il cuore e la mente di tutti.

Spesso, quando mi manca l’ispirazione per il mio lavoro, la cerco nel video con cui spiega il caso di Eluana Englaro all’allora ministro Angelino Alfano: “I giudici sono, rispetto ai diritti individuali”, diceva con riguardo al tentativo del governo, poi fallito come tante altre imprese celebri, di sostituirsi ai giudici nel decidere la sorte di Eluana, “il vero presidio. Nessun altro si può mettere al loro posto”.

Dal caso sono passati circa dieci anni, e ancora non abbiamo una legge sulla morte dignitosa, ma di questo problema si discute ancora molto spesso, a dimostrazione dell’energia sempre attuale delle parole del Maestro. Qualche settimana fa, ad esempio, si è aperto un dibattito serrato sul diritto di Totò Riina di morire con dignità, proprio lui che dignità per gli altri non ne ha mai avuta, nella vita come nella morte. Eppure, nel suo libro Il diritto di avere diritti (2012), Rodotà si domanda espressamente chi siano gli indegni e chi decida chi debba diventare “ombre, non più persone, esseri destinati soltanto a essere cancellati, sicché la privazione dei diritti corrisponde alla cancellazione dell’umanità“. Consiglio di leggere quelle pagine, prima di discutere.

Sono allora tre i grandi principi di cui Rodotà ha fatto tesoro nei suoi ultimi scritti:

1. il primo è la dignità umana, che non può essere cancellata con un colpo di penna. Troppe volte lui ha messo in luce la distanza esistente tra la dignità delle persone e l’indegnità della classe politica, che riteneva responsabile di aver declinato le proprie responsabilità nel legiferare proprio per conferire dignità agli invisibili. Non dimentichiamo, perché Rodotà ce lo ricordava spesso essendone uno dei fondatori, che l’articolo 1 della Carta dei diritti fondamentali della tanto vituperata Unione Europea stabilisce, in modo vincolante per tutti i governi, che “la dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata“.

2. il secondo è l’uguale dignità (per l’appunto) di giurisdizione e legislazione, principio che riponeva una grande fiducia nei nostri giudici, a fronte di un Parlamento recidivo nel non volersi occupare di certe questioni. Nel suo libro Diritto d’amore (2015), dedicato al tema delle unioni omosessuali, Rodotà riconosceva che il diritto al matrimonio tra persone dello stesso sesso e le adozioni da parte di tali coppie non rappresentano altro che la conquista di una libertà fondamentale e una scelta di grande civiltà giuridica. “Per uscire dalla regressione nella quale siamo precipitati – aveva già scritto nella prefazione a L’abominevole diritto – nulla sarebbe più forte del riconoscimento pieno dei diritti degli omosessuali”.

3. il terzo principio, forse il più importante, ma anche il più ovvio e proprio per questa ragione troppo spesso ignorato, è che il faro da seguire, anche in quelle circostanze di emergenza economica che sembrano aver ormai pervaso la nostra quotidianità, è mettere al centro la Costituzione. Sempre. “La Costituzione non può essere scritta come tutte le altre leggi”, diceva in un’intervista sull’ultimo referendum costituzionale.

Se conserviamo questi principi nel nostro cuore e li mettiamo al centro delle nostre discussioni politiche, allora la memoria di Stefano Rodotà resterà per sempre. Uomo generoso, sempre disponibile al dialogo, bollato volgarmente come “professorone” proprio da quella politica becera cui lui opponeva consolidati principi giuridici e dialettici, Rodotà è, come Piero Calamandrei, uno dei giuristi che hanno fatto la storia del nostro Paese e i cui libri dovrebbero essere studiati all’università. Perché è di questo che le giovani generazioni hanno bisogno. Non di sicurezza, come sentiamo dire troppe volte. Ma di dignità, laicità e solidarietà.

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