Quando l’amico ed ex compagno di squadra Alessandro Vanotti lo chiamò per fargli i complimenti, dopo la vittoria nella tappa del 17 aprile al Tour of Alps come stupidamente hanno ribattezzato il glorioso Giro del Trentino, Michele Scarponi disse: “Vedi, Ale? Qualche volta sono capace di vincere pure io…”. Si sentiva in gran forma per affrontare il Giro d’Italia numero 100. Ci teneva: i corridori sono i primi a conservare memoria del loro sport, e a perpetuarlo. A trentasette anni, il Giro è già in salita fin dalla prima tappa. Eppure, lui era convinto che avrebbe comunque lasciato il segno: non dovendo più essere al servizio del capitano di turno. Ieri, Vincenzo Nibali, lo Squalo. Oggi, Fabio Aru, il tamburino sardo. Che però si è infortunato due settimane fa. Dunque, era diventato Michele il capitano: “Stavolta corro per fare i miei interessi…”. Aveva una gran voglia di dimostrare che non era solo un “vice”… per questo si allenava con furore.

Michele impersonava, in un certo senso, il ciclismo complesso e altamente specializzato di oggi. Nel bene e nel male. Nelle imprese e nelle malefatte, vedi doping. Mostrando, però, il coraggio di confessare il suo coinvolgimento (caso Operacion Puerto, col medico Eufemiano Fuentes). La Federciclismo lo squalificò per diciotto mesi. Lui scontò la pena e tornò a correre. Con più rabbia di prima. In salita era un fenomeno, certo non quanto Pantani, ma poco sotto. Nel Giro del 2011 contese la vittoria finale allo spagnolo Contador. Che venne a sua volta beccato per doping. Così, Scarponi vinse quel Giro avvelenato. Lo considerò un risarcimento, ma avrebbe voluto battere Contador non a tavolino.

Il ciclismo attuale è un gioco degli specchi: sovente, non sai mai chi c’è riflesso. Scarponi era tra i migliori, non il migliore. Con intelligenza e grande pragmatismo, decise che il suo indubbio talento sarebbe stato più utile in appoggio ad un fuoriclasse. Ormai le corse a tappe sono pianificate in modo scientifico, ogni squadra è strutturata in funzione del percorso. Vincere un Giro e un Tour è il massimo. Lui ha contribuito in modo fondamentale ai successi di Vincenzo Nibali: soprattutto l’anno scorso. Il Campione e il Fuoriclasse. Scarponi agiva in corsa con intelligenza tattica e con immensa generosità. Dispensava consigli un po’ a tutti e da tutti era rispettato. Il suo volto era quello della fatica, dell’uomo solo al comando, del ciclista che domava pendenze da massacro. Interpretava la modernità del ciclismo che obbliga ormai i ciclisti a stagioni folli, si comincia a febbraio e si finisce a fine autunno. Dei corridori era un po’ il sindacalista: troppi doveri e pochi diritti, per chi non sta ai vertici delle squadre.

Di lui ricordo gli spunti in volata e quelli dialettici: al Tour mi ha spesso aiutato a decifrare le tappe e ad anticipare le mosse. Era ben conscio che il ciclismo doveva essere raccontato come una serie tv, a puntate e a stagioni, coi personaggi principali e quelli di contorno, in una continua girandola di sorprese e di colpi di scena. Ci mancherà. Mi mancherà la sua allegria – battute sferzanti e commenti feroci – e pure la sua rabbia, quando le cose giravano storte e non era riuscito a dare una svolta alla corsa. Lui era il magnete che alla fine riusciva a catturare tutti gli altri, appena superato il traguardo: i compagni di squadra, gli avversari, vincitori e vinti, dolore e gioia. Michele era tutto ciò.

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