Bruxelles è la sede del Parlamento e della Commissione europea, ma oltre ai palazzi delle istituzioni nelle immediate vicinanze risiedono le lobby, quegli enti portatori di interessi che lavorano per influenzare le politiche europee. E si stima che a Bruxelles ci siano 15.000 lobbisti. Ma cosa succederebbe se a fare attività di lobbying fossero proprio coloro che prima lavoravano in queste istituzioni? Sarebbe perlomeno strano ritrovarsi dall’altra parte del tavolo delle trattative. Ed è proprio questo che succede, almeno secondo Transparency International, che in un suo studio ha messo in luce come circa il 30% dei parlamentari europei e il 50% dei commissari che hanno lasciato la politica abbia iniziato a lavorare con organizzazioni iscritte nel registro europeo delle lobby.

Le porte girevoli – Il meccanismo è facile, si lavora all’interno delle istituzioni europee e alla fine del mandato si usano le proprie conoscenze, sia della materia che personali, per trovare un nuovo lavoro, sempre a Bruxelles, sempre nello stesso campo. Il meccanismo può, certo, migliorare la comunicazione e la mutua comprensione tra organizzazione, o aziende, e settore pubblico, ma “sotto un altro aspetto può far diminuire la fiducia nelle istituzioni, aumentando il sospetto che ci siano conflitti di interessi e che il governo sia vicino ai grandi business”, sostiene il report, rischiando di creare conflitti di interesse. Il tutto in un periodo in cui l’euroscetticismo è forte in tutta Europa. Ma in ogni caso è bene tenere in mente che le istituzioni europee tengono un registro delle lobby e costantemente incontrano queste associazioni in un processo aperto e trasparente.

I numeri – Cinquantuno degli europarlamentari che hanno terminato il mandato nel 2014 lavorano al momento in lobby registrate, mentre 53 hanno attività che Transparency International basandosi sulle informazioni pubbliche ritiene avere tra i propri compiti anche quello di fare lobbying a Bruxelles. Tra i commissari europei che hanno finito il mandato nel 2009 invece, 18 hanno trovato un nuovo lavoro che non rientra nel pubblico esercizio, di cui 15 in un’azienda iscritta al registro delle lobby. Da notare è che il 20% dei lobbisti che si trova a Bruxelles ha precedentemente lavorato per un’istituzione europea e questo è tanto più vero per Google, dove la percentuale sale al 50. Dal 2009 il gigante del digitale ha assunto 23 persone dalle istituzioni europee.

Barroso e altri casi eclatanti – I casi di porte girevoli a Bruxelles sono i più disparati e hanno coinvolto membri dell’Europarlamento e della Commissione che sono entrati a far parte di lobby che hanno relazioni dirette con le istituzioni europee, come ArcelorMittal, Uber, Bank of America e Volkswagen. Il caso più eclatante è stato quello dell’ex presidente della Commissione Europea Jose Manuel Barroso, che è entrato a far parte del board della banca di investimento Goldman Sachs. Ma non è stato certo l’unico. Sharon Bowles (Uk, ALDE), ex europarlamentare inglese e membro del Comitato per gli affari economici e monetari, dopo pochi mesi dalla fine del mandato ha iniziato a lavorare per il London Stock Exchange. Non ci sarebbe nulla di strano in questo se proprio la stessa europarlamentare non avesse avuto prima del 2014, anno in cui la legislatura sarebbe terminata, dieci incontri con il Lse, a due dei quali partecipò anche il numero uno Xavier Rolet e, se non fosse stata proprio la Bowle a curare la stesura dei nuovi regolamenti dei mercati finanziari in seguito alla crisi del 2008.

Ma il settore finanziario non è l’unico ad essere interessato. Holger Kramer (Germania, ALDE) dopo aver lavorato sulla regolamentazione dell’industria automobilistica è diventato direttore degli affari europei di Opel, mentre Neelie Kroes, ex commissaria per l’agenda digitale, è diventata membro del comitato consultivo di Uber e consigliere speciale di Merrill Lynch.

Un altro fenomeno molto comune poi tra i parlamentari è quello di aprire la propria società di consulenza su fondi e regolamentazione europea, come hanno fatto Arlene McCarthy (Uk, S&D), Graham Watson (Uk, ALDE) e Marije Cornelissen (Olanda, Verdi). Infine, ha fatto storia il caso di un membro della Commissione europea che è entrato negli uffici della commissione dalla ExxonMobil e che ha guidato le relazioni corporate in Europa per la compagnia petrolifera saudita Aramco, tutto questo durante il suo periodo sabbatico non retribuito.

Gli italiani sono due – In Italia nonostante diversi europarlamentari abbiano interrotto la carriera politica, solo due ex politici sono entrati nel privato: Antonio Cancian, ex membro della commissione per il trasporto e il turismo (Tran) e quella per l’industria, la ricerca e l’energia (Itre) che adesso lavora in un settore affine, ovvero è amministratore delegato di Rete Autostrade Mediterranee, società del Tesoro, e Alfredo Antoniozzi, membro del consiglio di amministrazione di Enel dal 2015, società iscritta nel registro pubblico delle lobby.

La normativa – Le leggi che mirano a ridurre questo fenomeno sono diverse tra Europarlamento e Commissione e, secondo l’associazione che si batte per la trasparenza e contro la corruzione, andrebbero implementate e migliorate. Attualmente i commissari europei alla fine del servizio hanno un “cooling-off period” di 18 mesi, ovvero un periodo cuscinetto durante il quale non possono lavorare per aziende o lobby che operano nello stesso settore del commissario, mentre per il l’Europarlamento una vera e propria legge non c’è, anche se gli ex membri dovrebbero, almeno in teoria, comunicare i nuovi impieghi e nonostante questi ultimi godano di un badge per entrare in parlamento anche dopo la fine del mandato. Più ristrette, invece, le regole per gli assistenti e per lo staff delle istituzioni europee, che hanno l’obbligo di attendere 24 mesi prima di poter lavorare in ambienti affini o in gruppi di pressione.

Ad ogni modo l’attività di lobbying non è necessariamente negativa e spesso porta a dei miglioramenti nelle leggi e nelle direttive: anche organizzazioni non governative che si battono per la salvaguardia dell’ambiente e altri enti partecipano a questo processo. Proprio per questo e per evitare che si creino situazioni di conflitto di interessi, Transparency International chiede che si faccia luce sul fenomeno e che la normativa vigente sia riformata adeguandola a quella canadese, che impone agli ex membri del governo e del parlamento un “cooling-off period” di 5 anni, o a quella francese, dove una commissione indipendente valuta i casi uno ad uno.

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