Tre domande. Quanto è diventato ampio il divario esistente tra la realtà e il racconto dei media? Nell’era degli algoritmi personalizzati, in che termini si può ancora parlare di gerarchia delle fonti d’informazione? Visto che ci informiamo soprattutto sui social, chi di noi avrebbe potuto prevedere la vittoria di Donald Trump basandosi su quanto vedeva su Facebook?

Tra i grandi sconfitti delle ultime presidenziali statunitensi non ci sono solo Hillary Clinton e il partito democratico Usa. La vittoria del miliardario newyorkese è anche una fotografia spietata della crisi delle testate giornalistiche tradizionali. Inorridita dai toni del candidato repubblicano, durante la campagna elettorale la gran parte dei media statunitensi ha messo in campo un endorsement senza precedenti in favore di Hillary Clinton. E i risultati sono stati essenzialmente due. In primis, tra i lettori si è diffusa la percezione che l’elezione di Trump fosse talmente deprecabile da risultare inverosimile. Parallelamente c’è stata una sostanziale rinuncia a priori ad intercettare la frustrazione dell’America profonda. Anche le redazioni italiane si sono in buona parte accodate: fino alla vigilia del voto i loro sondaggi davano la candidata democratica saldamente in testa.

Per dare una risposta alla prima delle tre domande, ad oggi lo iato esistente tra il “percepito” e il “reale” appare abissale.

Alle altre due proverò invece a rispondere basandomi su dati Censis resi pubblici alcune settimane fa e puntando l’obiettivo sulla crescente diversità dei comportamenti di chi si informa on line.

Ipotizziamo di mettere a confronto il modo di informarsi sul web di due utenti. Li chiameremo Mario e Piero e stabiliremo subito cosa hanno in comune. Hanno tutti e due tra i 30 e i 44 anni, sono cioè nella fascia di adulti che maggiormente usa internet e traina i consumi di tecnologie innovative. Sono istruiti: hanno almeno il diploma o un titolo di studio superiore ad esso. Per informarsi ricorrono entrambi principalmente al web: fanno parte del 35,5% di italiani che utilizza Facebook come fonte delle news.

Mario si affida alle fonti tradizionali. Fa parte del 40,5% di italiani che ogni tanto compra anche un quotidiano cartaceo, anche se non fa parte della ormai limitata clientela abituale (solo il 18,7% dei nostri concittadini acquista un quotidiano almeno tre volte a settimana, stando al Censis). Ma soprattutto Mario si informa sui quotidiani on line, come il 25,3% di utenti italiani, con una lucida gerarchia interiore di attendibilità delle fonti: l’algoritmo dei suoi interessi e dei suoi orientamenti genera sulla sua bacheca Facebook un flusso di news provenienti da testate giornalistiche autorevoli e conosciute.

Piero invece fa parte del 54,6% di italiani che non fruisce mai di “mezzi a stampa”: né quotidiani cartacei né altro. Come per il 40,5% degli italiani, la sua dieta informativa si basa sulle news di siti web indipendenti dai giornali tradizionali, portali d’informazione generica o specialistica, blog, tutti provenienti dalle più varie sottoculture: un bacino d’utenza uguale a quello dei quotidiani cartacei secondo il Censis, ma con più fidelizzazione (il 21,1% vi accede almeno tre volte a settimana). Piero si muove nell’ecosistema web senza pregiudizi sulle fonti: nei siti che visita c’è poco giornalismo tradizionale, ma spesso molta partecipazione degli utenti.

Ora rispondiamo alla seconda domanda: in che termini esiste una gerarchia delle fonti di informazione? Se Facebook è il punto di accesso alle news, la gerarchia è in larga parte dipendente dall’algoritmo. E come è noto, nonostante le polemiche divampate a più riprese l’algoritmo riflette più di tutto orientamenti, interessi e ricorrenza dei click dell’utente, scomponibili in un’offerta di news ormai atomizzata e molteplice, sostanzialmente priva di prerogative di nascita. Anche per quanto riguarda i nostri “amici” su Facebook, nel feed trovano maggiore visibilità quelli con cui interagiamo di più o che pubblicano post con interessi e orientamenti omogenei ai nostri, col conseguente rischio di incorrere nel pericoloso “bias di conferma“: processare le informazioni con l’intento di rafforzare le proprie convinzioni.

Mario e Piero fanno parte di due campioni ugualmente rappresentativi ma la loro gerarchia delle fonti è completamente discordante. Al punto che, dopo aver parlato per anni di digital-divide, possiamo dire di trovarci di fronte a un “perception-divide”: Mario e Piero usano la stessa tecnologia per informarsi ma le loro rappresentazioni della realtà sono completamente diverse, se non divergenti.

Mario aveva previsto la vittoria di Trump? Stando alla sua dieta informativa si direbbe proprio di no.

E Piero, invece? Forse nemmeno lui. Ma può aver avuto qualche chance in più di Mario. Perché Piero, dal suo feed di Facebook, ha avuto accesso a fonti che non fanno parte dell’informazione mainstream. Siti su cui hanno trovato spazio contenuti critici verso Hillary Clinton: propaganda di attendibilità discutibile e spesso di approccio complottista (vedi ad esempio i finanziamenti elettorali dell’Arabia Saudita) ma che, seppur superficialmente, può aver consentito a Piero di sintonizzarsi sugli umori di una parte dell’elettorato statunitense. Un lettore di giornali tradizionali ha invece captato molto meno. Un paradosso dell’informazione nell’era digitale su cui occorrerebbe riflettere.

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