Condannato definitivamente all’ergastolo nel 1993, uscito dal carcere nel 2015 per motivi di salute, Domenico Belfiore è a tutt’oggi l’unico colpevole dell’omicidio di Bruno Caccia, il procuratore capo di Torino ammazzato per strada mentre portava fuori il cane il 26 giugno 1983. Per la prima volta dopo quella lontana sentenza, l’uomo ritenuto il mandante del delitto e il boss della ‘ndrangheta piemontese degli anni Settanta-Ottanta – anche se non è mai stato condannato per associazione mafiosa – ha parlato pubblicamente in un’aula del tribunale di Milano, nel processo che vede Rocco Schirripa, uomo di ‘ndrangheta accusato di essere uno degli esecutori materiali. Belfiore ha professato la sua totale estraneità al delitto, dichiarando di essere stato “condannato innocentemente”.

Interrogato dal pm Marcello Tatangelo, titolare del processo processo Caccia Bis, ha inanellato una serie di “non ricordo”, soprattutto quando le domande vertevano sui colloqui avuti con il boss Placido Barresi, a seguito della ricezione di una lettera anonima – inviata dagli investigatori stessi per smuovere le acque molti anni dopo il delitto e individuarne gli esecutori – con i nomi dei presunti responsabili dell’assassinio del magistrato. Colloqui intercettati dagli inquirenti che, secondo l’accusa, testimonierebbero la colpevolezza di Rocco Schirripa.

A seguire è stato sentito in aula Vincenzo Pavia, cognato di Belfiore e collaboratore di giustizia. L’uomo, che si è pentito nel 1996, ha ricordato in aula quanto dichiarato 20 anni fa alla magistratura. Di fronte alla prima Corte d’Assise di Milano Pavia ha ricordato del progetto di Belfiore di uccidere il procuratore Caccia e di aver partecipato a dei sopralluoghi in via Sommacampagna a Torino, luogo in cui Caccia è stato ucciso.  Di Simone Bauducco e Davide Pecorelli

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