Per Poste non c’è due senza tre. Così, dopo Anima e Atlante, arriva anche Pioneer. Per la terza volta, in poco più di un anno e mezzo, il gruppo dei recapiti si prepara a investire ancora in asset bancari. Certamente un sollievo per il governo Renzi le cui preoccupazioni sulla tenuta del sistema bancario italiano si allentano un po’. Non bastava, infatti, il caso Anima, partecipazione acquistata ad aprile 2015 alleggerendo i conti del Monte dei Paschi di Siena che tra i suoi azionisti conta lo Stato. O ancora i 260 milioni versati più di recente nel fondo di salvataggi bancari, Atlante, ripudiato persino dal presidente dell’Acri, Giuseppe Guzzetti. Ora il gruppo guidato da Francesco Caio si prepara a togliere le castagne dal fuoco a Unicredit. In cordata con Cassa Depositi e Prestiti e Anima, Poste ha deciso infatti di presentare un’offerta di acquisto per Pioneer, la società di gestione del risparmio messa in vendita da Unicredit con l’obiettivo di intascare almeno 3 miliardi e ridimensionare così l’aumento di capitale necessario a mettere in sicurezza i conti dell’istituto milanese. Secondo quanto riferito dal Messaggero, per l’occasione Poste, Anima e Cdp, hanno intenzione di sborsare 3,4 miliardi, offerta che dovrà essere approvata in consiglio il 9 novembre in vista della scadenza per la presentazione delle offerte vincolanti (10 novembre). L’idea è di costituire per Pioneer una società ad hoc da quotare successivamente in Borsa lasciando spazio (10%) anche ad un nuovo socio, il fondo Aberdeen. Il progetto è complesso. Segno, insomma, che la vicenda Anima non ha insegnato abbastanza sul tema risparmio gestito. Eppure sarebbe sufficiente un primo bilancio dell’operazione a frenare facili entusiasmi da campagna acquisti.

Innanzitutto, la quota detenuta da Poste in Anima (10,3%) vale in Borsa la metà rispetto a quando venne acquistata dal Monte dei Paschi di Siena per 215 milioni. All’epoca, Poste riuscì a spuntare uno sconto rispetto alle quotazioni di mercato. Non abbastanza però per compensare la discesa del titolo che oggi per la società postale vale una perdita (minusvalenza) teorica del 35 per cento. Tutta colpa della volatilità dei mercati che hanno dimezzato gli utili di Anima e che rischia di pesare anche nella seconda metà dell’anno, come si legge nella semestrale del gruppo di risparmio gestito. Non a caso, Poste ha dovuto svalutare la partecipazione per due milioni, rinviando decisioni più dolorose legate a doppio filo con l’andamento dei mercati finanziari che la stessa Anima vede in chiaroscuro sull’intero 2016. A completare il quadro, infine, c’è il fatto che le sinergie promesse da Poste al momento dell’acquisizione di Anima sono sostanzialmente rimaste sulla carta mettendo in discussione la “forte valenza industriale” prospettata da Caio. Un errore di valutazione? Difficile dirlo, se così fosse, di certo si tratterebbe di un errore assai costoso non solo per l’investimento effettuato, ma anche per i costi di consulenza sostenuti da Poste per lo sviluppo e l’implementazione del piano industriale. Secondo quanto riferisce un’interrogazione ai ministri Padoan e Calenda presentata dai senatori Idv Alessandra Bencini, Francesco Molinari e Maurizio Romani, Poste ha, infatti, sborsato più di 12 milioni di euro nel biennio 2014-2016 per i consigli della Boston consulting group, multinazionale americana fra i leader mondiali della consulenza strategica. Suggerimenti che avrebbero dovuto portare frutti dorati da presentare agli investitori i quali, invece, assistono alla flessione del titolo in Borsa (-11% dalla quotazione) e ad acquisizioni la cui logica strategica non è proprio immediata.

Non è la prima volta, infatti, che Poste si lancia in operazioni di investimento più gradite al governo che al mercato. In passato è accaduto con Alitalia che non solo ha bruciato i 75 milioni investiti dall’ex ad Massimo Sarmi, ma ora rischia anche di mettere in discussione il prestito da 75 milioni concesso in tempi più recenti da Caio. Il tutto senza peraltro riuscire a realizzare le prospettate sinergie fra Alitalia e il vettore aereo delle Poste, Mistral air.  In tempi più recenti è arrivata poi la partecipazione di Poste in Atlante, il fondo gestito dalla Quaestio sgr, nato su spinta del Tesoro e con il contributo della Cassa Depositi e prestiti, per alleviare le sofferenze delle banche italiane. In questo caso, Poste ha giustificato il suo intervento come un’operazione di diversificazione degli investimenti. Ma in realtà la redditività di Atlante è ancora tutta da verificare. Lo testimonia il fatto che alcune casse di previdenza, come, ad esempio, quella dei notai si sono tenuti alla larga da Atlante perché temevano di “investire sul nulla” per via dell’incertezza sul valore effettivo dei crediti inesigibili (i cosiddetti Non performing loans) su cui il fondo scommette.

Ora tocca a Pioneer. Anche in questo caso c’è una banca in difficoltà (Unicredit) e la promessa di forti sinergie industriali con le Poste. L’idea è infatti unire le forze con Anima per creare il terzo gruppo italiano di gestione dopo Generali e Eurizon grazie a 300 miliardi di asset gestiti. Funzionerà? Difficile saperlo. Ma di certo il track record degli investimenti di Poste non gioca a favore. Per non parlare del fatto che le variabili in gioco sono molteplici. Incluso il rinnovo ad aprile dei vertici di Poste che continuano a macinare profitti grazie soprattutto al polo assicurativo. Per non parlare del collocamento in Borsa di una seconda tranche di azioni, sospeso al momento sine die e fortemente osteggiato dai sindacati. E, infine, del rapporto incestuoso con Cpd che da una parte è azionista di controllo (35%) di Poste, da un’altra si associa al gruppo dei recapiti in operazioni come Pioneer o Atlante e da un’altra ancora vende asset (il 14,8% della piattaforma di pagamenti digitali Sia) proprio alla controllata guidata da Caio. Il tutto in un palese conflitto di interessi che fa gioco anche al Tesoro, azionista di Cdp (accanto alle fondazioni bancarie) e di Mps, oltre che deus ex machina di Atlante.

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