“Un déjà-vu è un’imperfezione di Matrix, capita quando cambiano qualcosa”. La spiegazione che Trinity dava a Neo dopo il secondo passaggio di un gatto nero, nel film cult del 1999, potrebbe avvicinarsi parecchio alla realtà. Il déjà vu, quella sensazione alienante di aver già vissuto il momento in corso, non sarebbe un falso ricordo, come suppone l’ipotesi più accredita al momento, ma il segnale che il cervello ha avviato un controllo per verificare la salute del suo archivio di informazioni. Un check della memoria quindi, che si attiva dopo l’individuazione di un conflitto, per verificare che la materia grigia non abbia riportato, per l’appunto, alcun danneggiamento.

A dare questa definizione del déjà vu come una sorta di “antivirus” neurologico è stato un team dell’università scozzese di St.Andrews, guidato da Akira O’Connor. Il gruppo di ricercatori ha presentato i risultati del lavoro svolto alla Conferenza internazionale sulla memoria di Budapest, in Ungheria, svoltasi a luglio 2016. Lo studio è ora stato ripreso dal New Scientist. Per approfondire il meccanismo che provoca i déjà vu, gli scienziati hanno riprodotto il fenomeno in laboratorio attraverso un esperimento su 21 volontari, sottoposti alla risonanza magnetica funzionale.

Secondo la ricerca di O’Connor e colleghi, quando proviamo la sensazione del “già vissuto” si attivano le regioni frontali coinvolte nei processi decisionali e non le aree cerebrali associate alle memoria, come l’ippocampo. L’interpretazione del team scozzese è che durante il déjà vu si attivino queste aree perché il cervello sta passando in rassegna i propri ricordi e inviando un segnale per indicare che ha trovato un errore: un conflitto fra ciò che abbiamo realmente vissuto e quello che invece pensiamo soltanto di aver già sperimentato. Ovvero, se i risultati fossero confermati, non dovremmo spaventarci ma essere rassicurati dal funzionamento di una “spia” che dimostra la buona salute del nostro encefalo. Il meccanismo ci impedisce infatti di considerare reali dei falsi ricordi.

Non è un caso, infatti, che il fenomeno si manifesti con più frequenza nei giovani e diventa più raro nell’età adulta, quando si riducono le capacità mnemoniche. Andando avanti negli anni, precisa O’Connor, “può darsi che i sistemi di controllo peggiorino e che il cervello diventi meno capace di individuare un ricordo sbagliato“. I ricercatori puntualizzano tuttavia che queste conclusioni non dovrebbero allarmare chi un déjà vu non l’ha mai avuto: in questi casi può darsi che la memoria funzioni talmente bene da non aver bisogno di passare l’antivirus per ripulirla dagli errori.

Stefan Köhler, dell’università canadese del Western Ontario, spiega nei suoi studi che al momento non è possibile stabilire se il déjà vu sia un meccanismo vantaggioso o meno. “Potrebbe accadere che una simile esperienza renda le persone più prudenti, ossia meno propense a fidarsi ciecamente della propria memoria – osserva – Ma al momento non abbiamo alcuna prova”.

L’articolo su New Scientist

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