Alcuni commenti all’incidente ferroviario del 12 luglio tra Andria e Corato mi sono rimasti particolarmente impressi. Anzitutto, le parole dure e lucide del vescovo Luigi Mansi, che non ha esitato a condannare “quelle prassi dell’economia in cui non si pensa alla vita delle persone, ma alla convenienza e all’interesse, senza scrupoli e con piccole e grandi inadempienze del proprio dovere”. È un sistema, quello che viene messo in discussione: quello in cui viviamo. Come ha giustamente argomentato Sergio Rubini, in una commossa intervista rilasciata ad Antonella Gaeta per Repubblica, “la colpa è dei tagli, dei mancati investimenti e, adesso, ce la prendiamo col capostazione. Tutto l’impegno che l’Italia doveva profondere in modernizzazione, trasporti, infrastrutture, tutto si risolve col capostazione che ha sbagliato. Pare di stare in un film di totò, in quell’Italia lì. La verità è che vogliono che ci scagliamo gli uni contro gli altri. Se spengo il computer i dati vengono salvati automaticamente, se giro un film prevedo un cover set in caso di pioggia. Se i manager tagliano, alla fine si sbaglia e in quell’errore si perde tutto, anche se in cinquant’anni non è mai successo niente. Non si possono tagliare così i fondi al Sud”.

Il regista, evidentemente, si riferisce ai tagli indiscriminati al settore infrastrutturale di cui il Sud è stato oggetto negli anni, dando una lettura più ampia della situazione generale. Andando anche al di là del terribile caso specifico. Occorre una riflessione ampia sul Sud: molta autocritica, anche. Perché la questione investimenti non è sufficiente per spiegare quel che sta succedendo. Anche quando i fondi ci sono, si riesce a spender male o in ritardo, come ha ben spiegato Paolo Pagliaro su La7 poche sere fa, lasciando pochi margini di appello a molta parte della classe dirigente meridionale.

Un’analisi più ampia e impietosa viene proposta da Giuseppe De Tomaso, de La Gazzetta del Mezzogiorno, che propone una lettura inquietante secondo cui “il disastro ferroviario di Andria è il paradigma più completo del deficit culturale dei gruppi dirigenti del sud: un deficit, per molti versi, persino più grave di quello economico-infrastrutturale”. Un sud in cui “spesso non si spende per fare le opere, ma si fanno le opere per spendere”. Le mefitiche esalazioni degli intrecci tra burocrazia e imprenditoria sono la matrice delle nuove manifestazioni della rendita, dell’odierna gestione del potere e delle risorse. “Più si rallentano i lavori, più ci si avvicina inadempienti alla data di consegna dell’opera, più crescono le probabilità, anzi la certezza, che alla scadenza dei termini, la concessione venga rinnovata per un altro periodo”.

De Tomaso illustra lo scenario di un Sud (forse non solo) “vittima delle sue classi dirigenti, dei loro intrecci, dei loro affari, dei loro conflitti di interesse. Questo ceto dominante, che prima era agrario, poi urbano e oggi post-industriale, è più spregiudicato di un capitano di ventura cinquecentesco. Bussa a denari non in nome delle opere da realizzare, bensì dei lavori da cominciare e mai terminare”. Se possono sembrare esagerate queste considerazioni, ancora più dure sono quelle del magistrato Nicola Gratteri, che da trent’anni vive sotto scorta per la sua opera di contrasto a ‘ndrangheta e narcotraffico. Non lascia spazio all’ambiguità quando, parlando della Calabria, dice: “ci sono direttori generali che da vent’anni sono nello stesso posto, e da incensurati gestiscono la cosa pubblica con metodo mafioso”. E prosegue citando la presenza della “burocrazia dominante” paragonata a un “macigno”, un apparato “arrogante e autosufficiente sul piano del potere”. Il ceto parassitario, di cui parlava Gaetano Salvemini, è diventato sistema e si autoalimenta.

Il Sud deve prendere coscienza di questa situazione per dare una vigorosa spinta, dal basso, che punti a denunciare, aggredire e scardinare questi nodi gordiani della concentrazione del potere. Ben vengano i social media, i blog, le piattaforme di realtà aumentata, se possono diventare strumenti utili alla denuncia e alla partecipazione popolare. Forse per questo sono tanto contestati. E temuti.

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