Se questi sono gli effetti del “ritorno alla democrazia” in Turchia e cioè una geometrica potenza repressiva che si sta abbattendo nel paese con rastrellamenti, epurazioni, condizioni di detenzione al di fuori di qualsiasi parametro di civiltà nei confronti di funzionari pubblici, magistrati e poliziotti “infedeli” accomunati ai militari golpisti, che rappresentano una sparuta minoranza, sembra lecito domandarsi se “il golpe” avrebbe potuto produrre qualcosa di peggio.

Non ci sono solo i numeri di per sè impressionanti, dagli oltre 8700 dipendenti del ministero degli Interni rimossi fino ai 2745 magistrati fermati, sospesi e poi arrestati o le immagini raggelanti di prigionieri seminudi, ammassati con le mani legate e riversi al suolo in spazi asfissianti, che rimandano a situazioni tristemente note ed inequivocabili.

C’è insieme alla singolare prontezza nella redazione delle liste di proscrizione, compilate evidentemente per tempo, il tenore delle accuse che descrivono i magistrati “infedeli” come esecutori delle trame perpetrate dagli Usa dall’ex-sodale di Erdogan ora paladino dei diritti civili e autoesiliato Fethullah Gülem.

Ma più di tutto, e come era già ampiamente palpabile nelle ore concitate del tentativo del golpe e della “mobilitazione del popolo” che si è precipitato ad invadere le strade e le piazze al richiamo di Erdogan e dei muezzin suoi provvidenziali megafoni, c’è l’uso deformato e micidiale che il presidente-sultano sta facendo indisturbato dell’investitura popolare, impugnata come una clava contro i più elementari principi dello stato di diritto e delle democrazie liberali.

Dai tempi ormai lontani di “le moschee le nostre caserme… i fedeli i nostri soldati” e cioè i versi che declamava più di dieci anni fa, Erdogan è riuscito anche grazie al suo processo di apparente islamizzazione “moderata”, a trasformare nei “suoi soldati” una buona parte cittadini turchi che ora, incitata dallo stesso regime, democratico solo nell’involucro, reclama a gran voce il ritorno della pena di morte. E dunque Erdogan si domanda ad altissima voce: possiamo noi ignorare una richiesta che proviene forte e spontanea dal popolo?

Per ora l’Europa, con la voce di Angela Merkel, ha avvertito Erdogan che la Turchia può dimenticare definitivamente l’Europa se dovesse reintrodurre la pena di morte e Kerry ha assicurato che la “Nato vigilerà sul comportamento di Ankara”.

Ma dato che non mancano precedenti di “arrendevolezza” sulla difesa dei diritti e delle più elementari libertà individuali quando si ha bisogno di alleanze considerate strategiche come è oggi sul fronte dell’immigrazione quella con la Turchia, forse è il caso che a vigilare sia in primo luogo l’opinione pubblica internazionale e cioè ognuno di noi.

Tanto più per il livello dell’informazione che, non saprei dire se per sprovvedutezza o per naturale allineamento al vincitore (e nel caso del “golpe” turco non ci voleva uno stratega per prevedere che Erdogan avrebbe spianato i quattro gatti rivoltosi) ha dato un’immagine eroica e spontanea del popolo che “a mani nude” fermava i carri armati sul Bosforo.

In pole position, come da tradizione, il servizio pubblico con Rainews 24 dove Di Bella non ha lesinato paragoni storici con piazza Tienanmen e persino con Praga e Budapest. Con la piccola differenza che qui i rapporti di forza, al di là di ciò che appariva ma che il giornalista degno del nome dovrebbe saper decifrare, erano ribaltati e le conseguenze, una repressione indiscriminata e il pericolosissimo rafforzamento di Erdogan, facilmente prevedibili.

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